La violenza sulle donne come prodotto culturale. Uscirne si può?

Il 25 novembre si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, stabilita dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1981. Ogni anno, questa data è occasione per fare il punto sulla tutela dei diritti delle donne, sulla parità di genere e sulle politiche messe in atto dagli Stati per contrastare la violenza sulle donne. Dell’argomento si occupano molte ricerche sociologiche, psicologiche e antropologiche. Fra di esse, quella della sociologa Rose Marie Callà (Conflitto e violenza nella coppia, Franco Angeli, Milano 2011). La tesi dell’autrice è che le trasformazioni della famiglia, che negli ultimi 40-50 anni hanno portato la donna a cercare la propria realizzazione nel lavoro e hanno quindi modificato i tradizionali ruoli di genere all’interno della famiglia, hanno anche eroso la supremazia del potere maschile nella coppia, gettando le basi della violenza contro le donne. La violenza sulle donne, insomma, avrebbe soprattutto radici culturali e nascerebbe dal senso di perdita dell’identità maschile e dei ruoli di potere a essa tradizionalmente connessi.

Essa sarebbe quindi la conseguenza di una serie di trasformazioni storiche della famiglia in Occidente, che in Italia, negli ultimi decenni, in seguito al processo di industrializzazione, si riflettono nel diritto, favorendo una maggiore parità fra i sessi (diritti politici per le donne; abolizione delle attenuanti per uxoricidio come delitto d’onore; riforma del diritto di famiglia; leggi sul divorzio, sull’aborto, sulla violenza sessuale come reato contro la persona; accesso alle professioni; tutela della maternità).

Nella famiglia tradizionale, specialmente nel mondo rurale, dove la famiglia ha compiti sia produttivi sia riproduttivi, i ruoli maschili e femminili sono chiaramente distinti. Sia nelle famiglie nucleari (composte da genitori e figli), maggiormente diffuse nelle città, sia nelle famiglie estese o a ceppo (secondo la classificazione di Peter Laslett), più diffuse nelle campagne, è preminente il maschio capofamiglia, al quale la mentalità comune e il diritto assegnano una posizione dominante nella famiglia. In molti paesi europei (in Italia fino alla Riforma del diritto di famiglia del 1975, quando viene introdotta per legge la parità fra i coniugi sia nei rapporti personali sia rispetto ai figli), il marito esercita la potestà maritale (potere giuridico sulla moglie) e la patria potestà (potere giuridico sui figli), che gli consente, per esempio, di stabilire dove la famiglia debba risiedere. L’assenza della possibilità di divorziare – fino al referendum sul divorzio del 1974 – in questa situazione di subordinazione femminile rende di fatto la moglie non autonoma e spesso succube dell’uomo. La subordinazione al marito riguarda sia la sfera personale sia quella patrimoniale (obbligo della dote ed esclusione della moglie vedova dall’eredità, per esempio, ma anche assenza di un reddito proprio e quindi dipendenza economica).

Nelle società tradizionali (intendendo con questo termine non solo le società occidentali premoderne, ma anche quelle moderne fino agli anni Settanta del XX secolo), al marito paterfamilias viene assegnato il ruolo di breadwinner, ovvero di fonte del reddito familiare e alla moglie il ruolo di responsabile della gestione della casa e della cura della prole. Questa divisione dei ruoli è rispecchiata dalla sociologia funzionalista di Talcott Parsons, che negli anni Cinquanta considera la famiglia una piccola società dove si formano personalità umane e applica ad essa il modello AGIL: il padre svolge le funzioni economiche (Adaptative), decisionali (Goal Attainment) e normative (Integrative), la madre si occupa di educare i figli (Latent pattern maintenance). La disuguaglianza dei ruoli di genere viene spesso accompagnata da ragioni ideologiche: la donna è più emotiva e fragile; non è in grado di svolgere certe professioni che richiedono forza o razionalità; i figli hanno bisogno di cure materne, che sono istintive e naturali nella donna.

La diversità dei ruoli familiari rispecchia una concentrazione del potere in mano al genere maschile che attraversa tutta la società. Anche se le norme giuridiche (in primis la Costituzione) sottolineano l’uguaglianza giuridica fra i coniugi, di fatto la mentalità maschilista è difficile da scardinare. Quando le donne, in seguito alle lotte femministe, ottengono il diritto di voto e di accesso all’istruzione e al lavoro, il divorzio e la potestà genitoriale, il riconoscimento della gravità di alcuni reati legati al genere (come lo stupro, riconosciuto come reato contro la persona e non contro la morale solo nel 1996, e l’uxoricidio per mano di un coniuge geloso, il famoso delitto d’onore così ben raccontato da Pietro Germi in Divorzio all’Italiana e abolito, insieme al matrimonio riparatore, solo nel 1981), e quindi diventano più autonome e meno subordinate al marito o al compagno, entra in crisi il modello della supremazia maschile e un certo numero di uomini non riesce ad accettarlo. Il lavoro consente alla donna l’autonomia economica e la realizzazione delle proprie attitudini personali, anche attraverso l’istruzione, permettendole di ricoprire posizioni tradizionalmente affidate ai maschi. La mancanza di una ridefinizione dei ruoli maschili e femminili rende poco definita l’identità dell’uomo, che talvolta percepisce la donna come antagonista in un gioco competitivo, anziché come compagna di pari dignità in un gioco cooperativo. I ruoli femminili tradizionali – casalinga, angelo del focolare, maestra, domestica, segretaria ecc. – sono socialmente svalutati e molti uomini fanno fatica ad assumerli.

Negli ultimi decenni la famiglia ha perso parecchie delle funzioni tradizionali (come sostengono per esempio, fra gli anni ‘50 e ‘60, Parsons e Bales, Riesman, Horkheimer e Adorno, i quali parlano tutti di «crisi della famiglia») e ne hanno acquisite di nuove: la famiglia attuale tende a essere una realtà privata, fondata sull’intimità, provvede a socializzazioni secondarie oltre che primarie, supplisce alle carenze dello Stato sociale nell’assistenza dei più deboli, coordina le varie socializzazioni. Con la globalizzazione, che ha acuito il senso di incertezza, la famiglia tende a essere meno stabile e presenta strutture variabili, aumentano di numero i nuclei familiari, mentre diminuisce il numero di componenti, diminuisce la nuzialità a favore di forme di convivenza non istituzionalizzate. Questa maggiore fluidità rende ancora più difficile riconoscersi nei ruoli tradizionali. (C. Saraceno, M. Naldini, Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna, 20133).

La socializzazione primaria contribuisce grandemente al mantenimento dei ruoli sessuali, perché fin dalla nascita i bambini di sesso diverso ottengono trattamenti diversi. I modelli di genere si acquisiscono per imitazione dei modelli familiari, spesso rinforzati dai mass media e dalla pubblicità sessista, che presenta la donna come oggetto di piacere e non come soggetto umano dotato di dignità, capacità e diritti. Non si tratta di una condizione universale delle donne. Realtà culturali lontane e diverse, studiate dagli antropologi, ci presentano sia tradizioni di più o meno brutale sottomissione delle donne al potere maschile sia una sostanziale uguaglianza e armonia fra i sessi. Margaret Mead ci ha fatto riflettere sulla differenza fra sesso e genere e sul ruolo della socializzazione nella definizione delle caratteristiche maschili e femminili.

La violenza nella coppia ha cause molteplici ed è la forma più diffusa della violenza sulle donne, la quale è una delle forme della violenza sociale in genere.  Le teorie unicausali – che attribuiscono la violenza esclusivamente a fattori biologici, psicopatologici o psicologici – non sembrano esaustive. Le ragioni culturali e la mentalità sessista sembrano proprio, nella ricerca sociale, le cause prevalenti, anche se non le uniche, spesso rinforzate da insicurezza e incompetenza emotiva, specie in ambito familiare. La violenza nasce dallo squilibrio di potere e mira a ristabilire l’asimmetria e il dominio quando la persona violenta ha la sensazione di perdere la supremazia. Non è un problema solo maschile, naturalmente, anche se gli uomini violenti sono di gran lunga più numerosi delle donne violente.

In realtà, anche se una falsa notizia diffusa dal Consiglio d’Europa il 27 settembre del 2002 e ripresa acriticamente dai media affermò che la violenza sarebbe la prima causa di morte (in Europa) per le donne fra i 14 e i 44 anni, la violenza sulle donne per fortuna non ha esiti mortali così frequenti. La gravità del problema sta piuttosto nella sua diffusione, specie fra le mura domestiche. L’OMS calcola che, nel mondo, almeno una donna su cinque nella sua vita abbia subito abusi fisici o sessuali da parte di un uomo. L’ISTAT ne segnala una su tre in Italia nel 2014 fra i 16 e i 70 anni. Le forme della violenza di genere sono diverse: prima di tutto, è violenza psicologica, che mira a sottomettere, umiliare, controllare l’altro; poi è violenza fisica, economica, sessuale, persecutoria (dal 2009 è stato introdotto il reato di stalking). La violenza psicologica non è meno drammatica di quella fisica e si verifica soprattutto in famiglia  (ISTAT 2015). I danni prodotti sono gravissimi e riguardano la vita, la salute psicofisica, il benessere dei figli, con una ricaduta economica e umana imponente sull’intera società.

Ma si può rimediare al problema?

Rispetto agli squilibri di potere fra i sessi, l’educazione in famiglia e a scuola può agire sia in senso conservatore sia in senso innovatore. Può passare sotto silenzio o addirittura promuovere stereotipi sessuali e discriminazione fra i sessi, come avveniva per esempio sotto il fascismo o il nazismo con la loro esaltazione della funzione riproduttiva della donna o, in tempi più recenti, fino a qualche decina di anni fa, quando anche a scuola alle ragazze venivano proposte le attività “donnesche” (cucire, cucinare, riordinare la casa) e fino agli anni Sessanta venivano loro precluse alcune professioni, come quelle del giudice, del questore, del prefetto, dell’ambasciatore o del carabiniere. Lo stesso può fare la socializzazione attraverso i mass media, che può combattere o rinforzare le asimmetrie di genere. Si può riflettere anche sui modelli di comportamento che vengono diffusi dalla televisione e dai media che favoriscono una visione asimmetrica dei rapporti fra i sessi e che umiliano le donne, anche con la loro stessa complicità (come chiarì, per esempio, il documentario di Lorella Zanardo Il corpo delle donne).

L’educazione alla differenza, alla democrazia e alla non-violenza può dare un contributo a cambiare la mentalità maschilista e in generale a concepire i rapporti umani come paritari, solidali, empatici, anziché competitivi e fondati sul potere. Gli esseri umani sono programmati per la socialità, non per la competizione. L’educazione al riconoscimento e alla gestione delle emozioni avrebbe un ruolo centrale (l’intelligenza emotiva di cui parlano Daniel Goleman e Peter Salovey). Non sempre viene insegnata ai bambini la competenza emozionale e interpersonale. Serve però soprattutto che gli adulti forniscano modelli di comportamento adeguati, perché, come ci ha insegnato la teoria dell’apprendimento sociale, è l’imitazione del comportamento la forma di apprendimento più diretta in ambito sociale. Sarebbe inoltre anche utile un dibattito civile che porti a una regolamentazione ulteriore dei programmi televisivi, della pubblicità, dei videogiochi e in generale dei media che offrono esempi di sopraffazione maschile; a una maggiore tutela giuridica ed economica delle vittime di violenza; all’attivazione di campagne di sensibilizzazione e di misure cautelari e di recupero adeguate per gli uomini violenti. Servirebbe, infine, una classe politica sensibile al tema della violenza, che investa, come previsto dalle normative europee, fondi sufficienti per i centri antiviolenza e per l’assistenza, la prevenzione e il trattamento delle persone coinvolte nella violenza, spesso minori.

Per questo occorre promuovere l’educazione affettiva ed emotiva come un obiettivo educativo fondamentale della scuola e la tutela dell’integrità personale come un bene prezioso da proteggere attraverso la consapevolezza dei diritti. Il fatto di parlare della violenza domestica ha in effetti migliorato la situazione in Italia: i casi si sono complessivamente ridotti e questo fa ben sperare. Ma occorre anche inquadrare il problema nella cornice sociale e globale di un mondo neoliberista competitivo, spietato, ingiusto, che genera tensioni, conflitti e povertà e contribuisce non poco ad alimentare- oltre ai suicidi – disperazione, violenza e sopraffazione, le quali nel contesto delle relazioni familiari profonde trovano lo sbocco più immediato e devastante.