Armando Manocchia torna ad occuparsi dei bambini e dell’emergenza gender in questa puntata di “Piazza Libertà” dal titolo: “Emergender”.
Una questione già affrontata altre volte in passato che subdolamente passa troppo spesso sottotraccia ma che, oggi più che mai, rappresenta invece un’urgenza sulla quale accendere i riflettori.
Ne discutiamo insieme a Silvia Guerini, Francesca Romano Poletti, Romano Palladino, Patrizia Scanu, Ines Buonora e Giusy D’Amico.
Nella prima parte di questa analisi del Piano Scuola 4.0, dicevo che il documento è sconcertante per diversi aspetti: per ciò che dice, per ciò che tace e per ciò che dà per scontato. Abbiamo visto a grandi linee che cosa dice: si parla di didattica digitale, ambienti digitali di apprendimento, scuola digitale, innovazione digitale, competenze digitali, spazi virtuali di apprendimento, formazione dei docenti alle tecnologie digitali, potenziamento delle discipline STEM e del pensiero computazionale. Ma che cosa tace?
Sono completamente assenti i bisogni educativi di bambini e ragazzi. Un progetto così radicale presuppone la conoscenza approfondita delle ragioni del declino dell’istruzione pubblica e delle esigenze reali degli alunni. La devastazione psicologica prodotta dall’interruzione scolastica, dall’isolamento, dalla DAD, dalle misure coercitive, dalla mancanza di empatia per i loro bisogni irrinunciabili di movimento, di contatto fisico, di gioco, di socialità, di natura non viene mai menzionata nel documento. Addirittura, si considera “esperienza” l’immersione nel metaverso, che è negazione dell’esperienza reale.
Non si fa alcun cenno ai rischi di esposizione ai CEM (campi elettromagnetici) né ai danni ai processi di apprendimento. Una corposa letteratura scientifica indipendente mette in allarme sui possibili effetti biologici dannosi dell’esposizione prolungata ai CEM, e in una scuola di media grandezza si trovano router wireless e centinaia, se non migliaia di dispositivi elettronici, soprattutto smartphone. Parliamo di ragazzi in fase di crescita e quindi più sensibili, ma anche dei docenti, per non parlare dei soggetti elettrosensibili. Chi se ne preoccupa?
Ci sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscoloscheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica… Sono gli effetti che l’uso, che nella maggior parte dei casi non può che degenerare in abuso, di smartphone e videogiochi produce sui più giovani. Niente di diverso dalla cocaina. Stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche.
Manca completamente un dibattito pedagogico sull’argomento. Non c’è stato un coinvolgimento dell’opinione pubblica, dei pedagogisti, degli insegnanti sull’opportunità di stravolgere così profondamente la didattica, visti i risultati sconfortanti della DAD e la diffusione dei fenomeni di dipendenza da digitale, soprattutto nei primi gradi dell’istruzione. Né si fa alcun cenno al fatto che i Paesi nordici, Svezia e Finlandia in testa, dopo aver constatato il fallimento della didattica digitale, stanno ritornando a carta e penna e guardano all’Italia come a un modello da imitare. L’UNESCO, in un rapporto recente parla di “tragedia ed-tech mondiale”: è aumentata la disparità fra studenti e sono peggiorati gli apprendimenti.
Manca ogni riferimento alla letteratura scientifica e ai dati internazionali consolidati. Nella propaganda mediatica ormai senza pudore in cui viviamo immersi, la “scienza” viene tirata in ballo solo come giustificazione di scelte politiche o economiche predeterminate, ma ignorata completamente quando afferma verità scomode o mette in discussione dogmi superstiziosi. Il documento non presenta alcuna bibliografia a sostegno di quanto afferma, a parte qualche generico riferimento non argomentato.
Mancano le reali esigenze della scuola. Nella ormai cronica carenza di mezzi in cui versano le scuole da decenni per incuria o per precisa volontà politica, la pioggia di denaro del PNRR appare come un acquazzone nel deserto. Ma i fondi sono vincolati in gran parte all’acquisto di tecnologia digitale, mentre ad una didattica dignitosa manca spesso l’essenziale: aule ampie e salubri, edifici sicuri, palestre attrezzate e in numero adeguato, classi meno numerose, docenti adeguatamente formati e selezionati, dirigenti più educatori e meno burocrati, continuità didattica, fondi adeguati per le attività di progettazione educativa, spazi aperti, materiali di consumo, laboratori aggiornati eccetera.
Manca qualunque confronto democratico nel processo decisionale e viene violata la libertà di insegnamento. Il Piano Scuola 4.0 può essere solo accettato dalle scuole, pena il commissariamento, in spregio a qualunque principio democratico, nonostante sia dichiaratamente volto a modificare in modo radicale tutta la didattica in funzione della tecnologia, anziché sostenere i docenti nel progettare un uso della tecnologia funzionale alle esigenze didattiche, come sarebbe ovvio in ossequio al principio della libertà di insegnamento, che “è diretta a promuovere, attraverso un confronto aperto di posizioni culturali, la piena formazione della personalità degli alunni”(art. 1 del d. lgs. 16 aprile 1994 n. 297). Si profila un’evidente lesione delle libertà costituzionali, che sono la principale garanzia di un insegnamento non orientato all’indottrinamento ideologico. Addirittura, si prospetta un avanzamento di carriera unicamente fondato sull’adesione completa alla digitalizzazione forzata.
Manca la base giuridica e costituzionale. Come abbiamo già osservato, questa trasformazione radicale della didattica a targa WEF (World Economic Forum, citato a pagina 31 del Piano Scuola 4.0) è passata senza un voto parlamentare e senza una legge, solo come allegato ad un decreto ministeriale, che avrebbe facoltà al più di dare indirizzi all’organizzazione del Ministero dell’Istruzione. Rimando alla puntuale disamina giuridica del prof. Giuliano Scarselli.
Mancano l’educazione, la cultura umanistica, la formazione della persona umana, che sono il patrimonio più prezioso della tradizione culturale italiana e il contenuto del dettato costituzionale. Poiché è chiaro che alla scuola non si daranno fondi per aumentare le ore di lezione, l’inserimento forzato delle discipline STEM (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica, nominate sempre in inglese) toglierà spazio alle materie umanistiche (storia, filosofia, geografia, italiano eccetera), rendendo la scuola non più un luogo di produzione di cultura e di formazione di menti pensanti, ma una ludoteca permanente o al più – anche nei licei – un luogo di specializzazione precoce di tecnici dalle ristrette competenze e ignoranti su tutto ciò che conta per un’esistenza non appiattita su lavoro e svago. La scuola della Costituzione non ha come fine il lavoro, ma la crescita di cittadini critici e consapevoli, che avranno le basi per affrontare qualunque sfida professionale con un retroterra di conoscenza solida e nutrita dalla nostra gloriosa tradizione umanistica e artistica. Del nostro immenso patrimonio culturale non c’è traccia nel documento.
Manca ogni riferimento all’obsolescenza delle tecnologie. Nel giro di pochi anni, tutta la tecnologia ora acquistata diventerà obsoleta e occorreranno ingenti risorse per rinnovarla. Verranno così stornati ulteriori fondi dalla scuola a favore delle aziende produttrici, come è avvenuto nella sanità con i profarmaci genici. Del resto, privatizzare le risorse pubbliche per arricchirsi e condizionare le politiche degli Stati è un obiettivo delle multinazionali.
Infine, che cosa dà per scontato questo bizzarro (e pericoloso) documento? Che il digitale sia l’unica via per migliorare la scuola; che i docenti siano tutti d’accordo e siano obbligati ad applicarlo (un’offerta che non si può rifiutare!); che gli obiettivi indicati nel Piano Scuola 4.0 (innovazione, sicurezza, inclusione, sostenibilità) si realizzino con l’imposizione del digitale; che gli insegnanti debbano rinunciare alla libertà di insegnamento e gli studenti al diritto ad un’istruzione libera e democratica; che sia necessaria la gerarchizzazione dei docenti in base alla fedeltà al Piano Scuola 4.0; che il digitale porterà alla riduzione della dispersione scolastica e ad un futuro radioso per i giovani; che la scuola debba essere finalizzata all’inserimento lavorativo; che l’inserimento precoce nell’ambiente aziendale sia un vantaggio formativo per gli studenti; che i privati debbano avere accesso al mondo della scuola e trarne profitto; che si possa trasformare radicalmente la scuola con un semplice decreto ministeriale, senza passare per il Parlamento e ignorando le regole.
Ciascuna di queste convinzioni appare priva di fondamento logico, giuridico e pedagogico, quando non è completamente falsa; soprattutto, l’idea di scuola che veicola appare eversiva rispetto al dettato costituzionale, che vuole la scuola come il luogo dove si formano le persone umane alla libertà, alla dignità, al rispetto di sé e degli altri, alla ricerca della verità e al dialogo democratico, vissuti quotidianamente nella relazione educativa e alimentati da un contesto sociale che mette al centro i valori umani e l’educazione.
Non si può perciò accantonare il sospetto che proprio l’attacco al principale organo costituzionale (come lo definiva Piero Calamandrei) e alla crescita sana dei più giovani, dopo le misure carcerarie devastanti della pandemia e insieme all’ingresso forzato della sessualità precoce a scuola, abbia il fine preciso di distruggere l’identità culturale, sociale e individuale di un popolo unico al mondo per creatività e amore della bellezza, che ha smarrito il senso profondo e spirituale della sua inestimabile ricchezza. Sulle macerie di questa guerra asimmetrica non dichiarata bisognerà ricostruire tutto daccapo.