Articoli Blog

In evidenza

Le regole del dialogo in democrazia

”…la democrazia non è soltanto un abito esteriore di regole, ma è anche un atteggiamento interiore che dà corpo alle istituzioni; … non c’è democrazia senza un ethos conforme e diffuso; … lo scheletro, fatto di regole, è importante ma non sufficiente; … la più democratica delle costituzioni è destinata a morire, se non è animata dall’energia che è compito dei cittadini trasmetterle”. A. Zagrebelsky

Gli ingredienti della democrazia sono tanti, ma il metodo con cui viene realizzata concretamente è costituito dal dialogo. Senza dialogo, anche di fronte all’apparenza della democrazia, viene meno la sostanza di essa. Una persona autenticamente democratica sa dialogare, perché nutre la fiducia profonda che la verità non sia patrimonio di qualcuno in particolare, ma sia raggiungibile attraverso la ricerca associata. Tuttavia, non è affatto scontato saperlo fare. I mass media e i politici ci danno ogni giorno pessimi esempi al riguardo.

Una delle strategie più utilizzate nella comunicazione pubblica è quella dell’avvelenamento del pozzo, che consiste nel delegittimare in anticipo qualunque cosa l’avversario possa dire, insinuando che sia scorretto, in cattiva fede o poco credibile dal punto di vista scientifico, morale, politico ecc. Qualunque cosa la persona dirà, verrà pubblicamente ignorata, considerata irrilevante o accolta come falsità (F. D’Agostini, Verità avvelenata, p. 11). Come una piccola quantità di veleno versato in un pozzo può avvelenare un’intera comunità, così questa strategia retorica distrugge il dialogo e di conseguenza la democrazia.

Il ventennio berlusconiano ci ha abituati alla distruzione delle regole del dialogo sui media e all’avvelenamento sistematico del dibattito pubblico. Oggi è perfino difficile accorgersi del livello di nichilismo argomentativo a cui siamo giunti. Non che prima mancassero usi fallaci e manipolativi della comunicazione politica, ma ora basta affacciarsi a qualche discussione su Facebook per accorgersi di quanto pervasivo e disastroso sia stato l’avvelenamento collettivo.

Un movimento politico che proponga un progetto autenticamente democratico deve secondo me interrogarsi a fondo sulle regole del dialogo democratico e applicarle in modo sistematico al proprio dibattito interno, a cominciare dalle discussioni su Facebook. La democrazia è un modo di essere, prima ancora che un modo di pensare.

Pur rendendomi conto dell’incompletezza del discorso, provo ad elencare le strategie secondo me più utili allo scopo di far progredire la discussione e a condurla a risultati costruttivi. Contribuiscono a questa proposta la riflessione sul metodo socratico e sulla teoria dell’argomentazione, le pagine di Zagrebelsky sulla democrazia, l’esperienza di anni di lavoro con i gruppi e di mediazione dei conflitti e la fiducia profonda che la verità abbia una forza persuasiva peculiare, quando la si cerchi con onestà intellettuale.

Come prima regola, occorre scoprire la felicità dell’errore. Quando siamo colti in errore, spesso ci risentiamo e ci inalberiamo, feriti nel nostro narcisismo. Eppure, Socrate insegna che occorre rallegrarsi quando qualcuno ci mette di fronte al nostro errore, perché così la nostra conoscenza progredisce. C’è un’intera pedagogia dell’errore da rivalutare a questo proposito, anche a scuola.

La seconda regola è diretta conseguenza della prima: la verità è l’oggetto della discussione e il fine di essa, non la sua premessa. Nessuno può vantare dogmaticamente il possesso preliminare della verità. Il dogmatismo uccide il dialogo in culla. Il punto di partenza di una discussione è una tesi, sempre parziale e unilaterale. Occorre qui distinguere fra dialogo persuasivo, in cui A sostiene p per convincere B, mentre B non sostiene nulla, e dialogo euristico, in cui A sostiene p e B sostiene non-p. In questo secondo caso, il fine della discussione non è avere ragione, ma sapere chi ha ragione e qual è la ragione migliore (F. D’Agostini, p. 181). In caso contrario, è una disputa, che non porta da nessuna parte. Il dialogo persuasivo è utilizzato per esempio dal politico per farsi eleggere o dall’avvocato per difendere il suo cliente, il dialogo euristico è quello che invece ci interessa più direttamente.

La terza regola è il rispetto dell’interlocutore: poiché l’avvelenamento si scatena proprio quando delegittimiamo l’interlocutore, questa è una vera e propria strategia disintossicante. Non si criticano mai la persona o le sue qualifiche, ma sempre e solo il contenuto delle sue affermazioni. A volte si sente affermare che su un certo argomento (scientifico, economico, politico) devono parlare solo gli esperti, e quindi si nega valore a quanto dice l’interlocutore, giudicato incompetente, ma si tratta di una fallacia argomentativa (fallacia ad verecundiam o ad auctoritatem): è evidente infatti sia che a volte un’autorità può sbagliare sia che la verità può venire anche da una persona inesperta (mi ricordo come rimasi a bocca aperta quando dissi a mia figlia di 6 anni che, secondo alcuni scienziati, lo spazio è curvo e lei mi rispose subito: “Ma se lo spazio è curvo, allora l’universo è finito!”). Avere certezze preliminari rappresenta un ostacolo al raggiungimento della verità. Mai sottovalutare l’interlocutore e valutare unicamente la validità e la correttezza degli argomenti. Tutti possono parlare di tutto, se lo fanno rispettando le regole dell’argomentazione e se sono disposti al confronto e al riconoscimento dell’errore.

La quarta regola completa quella precedente: il dialogo deve accertare se la divergenza riguarda la descrizione dei fatti o degli eventi in questione o l’interpretazione di essi. In ogni caso, il dialogo deve fare riferimento ai fatti, senza accordo sui quali non c’è progresso nella discussione. Occorre costruire un terreno comune. Spesso occorre ricostruire i fatti mettendo insieme e confrontando diverse descrizioni di essi, per arrivare ad una ricostruzione condivisa. Questo però richiede che entrambi gli interlocutori prendano in considerazione i dati di fatto presentati dall’altro. Rifiutarsi di farlo a prescindere chiude subito il dialogo. Rifiutarsi di accogliere la ricostruzione dell’altro, quando è la più credibile, pure.

La quinta regola è la pertinenza: il dialogo procede se l’obiezione di B è pertinente all’affermazione di A. Riuscire a non divagare e a non introdurre nel discorso argomenti estranei consente di avanzare, altrimenti crea confusione.

La sesta regola è il rispetto delle regole logiche e argomentative. Qui l’esempio che viene dai media è disastrosamente negativo. Ma anche nel dibattito scientifico ricorrono spesso delle fallacie logiche o argomentative. Una delle più ricorrenti è la fallacia ad ignorantiam. A sostiene p dicendo che non ci sono le prove di non-p. Per esempio: non ci sono prove che il diserbante x o il farmaco y provochino il cancro o altra patologia, di conseguenza si possono usare tranquillamente. Si tratta di un errore: l’assenza di una prova non equivale affatto alla prova di un’assenza. Non trovare il cadavere di una persona scomparsa non implica affatto che non sia morta. Non avere le prove della colpevolezza di qualcuno non vuole dire affatto che quella persona sia innocente. Questo errore logico grave (dogmatismo ad ignorantiam) deriva da un particolare modo di intendere la verità, che si chiama epistemicismo (una proposizione è vera se e solo se è giustificata), combinato con il realismo (una proposizione che non è vera è falsa): il piano logico e quello fattuale vengono arbitrariamente considerati intercambiabili, per cui non vero = falso e non falso = vero (F. D’Agostini, cit.. pp. 120-121). In realtà, dall’assenza di prove possiamo correttamente ricavare al più una dichiarazione di ignoranza. La conoscenza delle fallacie argomentative, che sono numerose e talvolta sottili, rende il dialogo molto più produttivo, perché consente di ridurre gli errori di ragionamento, soprattutto in ambito politico, e di affrontare intrepidamente la ricerca della verità. Consente inoltre di non farsi abbindolare da falsi argomenti e di saper controbattere alle fallacie altrui. Se a qualcuno interessa, possiamo approfondire in ulteriori articoli e condividere conoscenze. Una buona introduzione è quella di Franca D’Agostini, citata in fondo.

La settima e ultima regola che propongo è la curiosità: non c’è modo di arrivare da nessuna parte in una discussione senza la curiosità di conoscere e il piacere di ascoltare. Il dialogo, in fondo, è ciò che ci contraddistingue come esseri umani e sociali. Fare domande, chiedere chiarimenti, interessarsi genuinamente della prospettiva del nostro interlocutore rende il dialogo un’attività piacevole e umanamente arricchente e realizza una delle qualità più felici della democrazia, che è la partecipazione.

E’ stato detto con ragione che “nessuno, da solo e senza compagni, può comprendere adeguatamente e nella sua piena realtà tutto ciò che è obbiettivo, in quanto gli si mostra e gli si rivela sempre in un’unica prospettiva, conforme e intrinseca alla sua posizione nel mondo. Se si vuole vedere ed esperire il mondo così com’è ‘realmente’, si può farlo solo considerando una cosa che è comune a molti, che sta tra loro, che li separa e unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e dunque diviene comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le loro opinioni e prospettive. Soltanto nella libertà di dialogare il mondo appare quello di cui si parla, nella sua obiettività visibile da ogni lato” (H. Arendt, in Zagrebelsky, cit., p. 29).

Franca D’Agostini, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, Torino 2010.

Gustavo Zagrebelsky, Lezione di democrazia alla Biennale Democrazia, Torino 2009 (http://paigrain.debatpublic.net/wp-content/uploads/lezione_zagrebelsky.pdf); anche in Imparare democrazia, Einaudi, Torino, 2007.

Stop alle telefonate! A scuola vietati i cellulari.

Intervista televisiva su Byoblu a “Che idea ti sei fatto?” (11/07/2024)

Una telefonata in meno ti allunga la vita. Addio ai cellulari nelle scuole, almeno fino alle medie. È arrivata la circolare firmata dal ministro dell’istruzione Giuseppe Valditara: una decisione attesa da tempo. Esulta il Moige (Movimento italiano genitori) che chiedeva un cambiamento di rotta.

L’eccesso di tecnologia spesso crea dipendenza e danni psicofisici. Questo è visto come un primo passo verso una “bonifica” dall’eccessiva tecnologia. Intanto a scuola parte anche la sperimentazione sull’intelligenza artificiale. Le opposizioni (Pd in testa) contestano. L’ex ministro Marianna Madia parla di “risposta piccola ad un problema enorme”. Si dice che invece deve esserci un accompagnamento all’uso delle tecnologie. Ne parliamo con Elisabetta Frezza (giurista), Patrizia Scanu (psicologa e insegnante), Anna Pettinaroli (comitato Levante Stop5G) e Stefano Gandus (pediatra e oncologo). Non perderti questa puntata di “Che idea ti sei fatto?”

https://www.byoblu.com/2024/07/11/stop-alle-telefonate-a-scuola-vietati-i-cellulari-che-idea-ti-sei-fatto

5G ANNA PETTINAROLI CELLULARI A SCUOLA DIARIO ELETTRONICO DIGITALE ELISABETTA FREZZA PATRIZIA SCANU STEFANO GANDUS VALDITARA

La scuola delle multinazionali

Se si legge il Piano Scuola 4.0 sul sito del Ministero dell’Istruzione, non può sfuggire il tono esaltato con il quale si promuovono i nuovi “ecosistemi di apprendimento”, ovvero gli ambienti scolastici “innovativi e digitali”, finanziati con il PNRR “per accelerare il processo di transizione digitale della scuola italiana in tutte le diverse dimensioni e allinearlo alle priorità dell’Unione europea”. Di qui il tripudio di novità entusiasmanti, quali “la connettività per l’accesso a tutti i servizi internet alla massima velocità disponibile”, gli obiettivi “di inclusione e abilitazione di competenze” (digitali), per trionfare infine con le “next generation classrooms”, gli “ambienti on line tramite piattaforme cloud di e-learning e ambienti immersivi in realtà virtuale”, l’”eduverso” e gli “ambienti di apprendimento onlife” (!). Tralasciamo per pietà il profluvio di incomprensibili neologismi in inglese che dovrebbero conferire al testo un’apparenza di innovazione pedagogica e veniamo ai fatti.

L’utilizzo del digitale nella didattica, specialmente prima dei 14 anni, è disastroso per lo sviluppo delle capacità cognitive, sociali, emotive e relazionali, per la salute psicofisica dei ragazzi, per il loro apprendimento a scuola. Lo dimostrano centinaia di studi condotti in tutto il mondo e riferiti con ampiezza dal neuropsichiatra tedesco Manfred Spitzer nei suoi ormai numerosi libri divulgativi, fra i quali Demenza digitale, Emergenza smartphone, Solitudine digitale. Lo attesta la VII Commissione Istruzione del Senato, che a giugno 2021 afferma all’unanimità che “non è esagerato dire che il digitale sta decerebrando le nuove generazioni” e che non è “niente di diverso dalla cocaina” per la dipendenza di cui è causa. Lo ribadisce l’UNESCO, che parla di “tragedia dell’ed-tech mondiale”. Lo confermano i dati OCSE-PISA, che mostrano un declino delle prestazioni scolastiche degli studenti a partire dal 2012. Uno studio condotto dall’Università di Helsinki mostra che la scuola finlandese, considerata la migliore in Europa, sta perdendo colpi e ne attribuisce la principale responsabilità all’abuso di digitale nella didattica. In Svezia si sta pensando di tornare a carta e penna e si guarda all’Italia come a un modello. L’OMS nelle sue Linee guida spiega che il tempo trascorso davanti allo schermo può danneggiare i bambini e indica correlazioni con sovrappeso, obesità, problemi di sviluppo motorio e cognitivo e di salute psico-sociale. Perfino i filantropi, gli amministratori delegati, gli ingegneri e in generali i tecnici delle aziende high-tech statunitensi proibiscono l’utilizzo degli strumenti digitali ai propri figli e li mandano nelle scuole steineriane, dove il digitale è assente, perché “i magnati della Silicon Valley conoscono bene i danni che possono provocare in tenera età i gadget tecnologici dal design persuasivo sviluppati con la collaborazione di psicologi infantili”, spiega Milena Gabanelli in un articolo per il Corriere della Sera TV.

Ma se tutti sanno tutto, perché le nostre scuole vengono bombardate dalla retorica della “transizione digitale”? Perché i bambini di pochi anni sono costretti a utilizzare gli strumenti digitali anche se i genitori non sono d’accordo? Perché dobbiamo consegnare dati ultrasensibili a imprese private senza adeguata regolamentazione tramite il registro elettronico e le piattaforme digitali? Perché dobbiamo assistere impotenti alla distruzione della mente e della salute di milioni di bambini e ragazzi?

In un articolo su Bill Gates apparso su Forbes, Peter Greene scrive: “Se i dati sono il nuovo petrolio, le scuole pubbliche sono il nuovo Texas”. La frase può essere intesa in più modi: la digitalizzazione dei dati permette a soggetti privati stranieri di accedere a ogni dettaglio della vita scolastica di milioni di studenti in tutto il mondo, per farne l’uso che ritengono opportuno a fini commerciali o di controllo.

Ma la scuola è il nuovo Texas anche perché le multinazionali del digitale e delle telecomunicazioni stanno ingoiando una bella fetta delle risorse già scarsissime della scuola pubblica per piazzare i propri prodotti digitali, destinati a veloce obsolescenza e a una rapida sostituzione, e per esercitare un controllo di fatto sulla didattica. Le scandalose misure pandemiche che hanno costretto alla DAD i nostri figli sono state una manna dal cielo per tutti quei soggetti sovranazionali – le aziende ed-tech, il World Economic Forum, la Commissione europea fra tutti – che hanno enormi interessi economici diretti o indiretti nel settore digitale e per i quali non è certo la qualità degli apprendimenti e dell’offerta educativa l’obiettivo delle politiche scolastiche. È il libero mercato, bellezza!

Infine, la scuola pubblica è il Texas in un ulteriore, sinistro significato: programmare i più piccoli all’obbedienza, drogarli con la dipendenza da Internet, privarli del pensiero critico, dell’empatia, della gioia di muoversi all’aria aperta e di mettersi alla prova nelle relazioni faccia a faccia è il sogno erotico di ogni dittatore. Chi non conosce la libertà e non sa pensare non sa nemmeno di essere schiavo. Sarà per questo che gli oligarchi planetari investono così tanto in tutto ciò che può minare lo sviluppo sano e naturale dei bambini, dai prodotti farmaceutici, ai dispositivi digitali, al cibo-spazzatura, ai modelli identitari “fluidi”, all’educazione sessuale precoce, finanziando con fiumi di milioni gli influencer sui social, le associazioni di insegnanti, di medici e di psicologi, le università, i media, le organizzazioni non profit e i centri di potere a ogni livello?

Una cosa è certa: dove i miliardari “filantropi” hanno messo le mani sulla scuola, con il pretesto di migliorarla e di “innovarla”, come il progetto Common Core finanziato dalla Bill & Melinda Gates Foundation negli USA, i risultati scolastici degli studenti sono peggiorati. Come scrive Melissa McKenzie in un articolo del 14 dicembre 2020 su The American Spectator, “in pratica, i bambini americani sono ora più grassi e più stupidi. Viene negato loro il tempo di gioco, sono pieni di energia repressa e di ansia e sono drogati con la medicina per l’ADHD per reprimerli. Odiano la scuola e la loro crescita è stentata”.

La scuola ludica e artificiale della gamification priva gli allievi delle esperienze corporee ed emotive fondamentali per crescere. Questa è la cruda realtà. L’esaltazione della didattica immersiva offerta da VR (realtà virtuale) e AR (realtà aumentata) è funzionale alla vendita di prodotti tecnologici e non alla crescita armoniosa dei ragazzi. È pura propaganda commerciale. La tragedia è che, attraverso questa presunta innovazione, si costringono subdolamente gli insegnanti a modificare la didattica nella direzione voluta dalle aziende private, dalla quale spesso provengono o con le quali hanno stretti rapporti pure i politici. Per questo viene imposta senza discussione. Non reggerebbe nessun serio confronto scientifico. E per questo chi prova ad avanzare dubbi viene subito bollato come troglodita. La retorica della fallacia ad personam è l’arma più facile da usare, quando sono in gioco i miliardi.

Vale la pena di ricordare quanto scriveva Aldous Huxley ne Il nuovo mondo: “Quando i membri di una società passano gran parte del loro tempo non all’erta, col cervello ben desto, qui e ora, o nel futuro immediato, ma altrove, nell’altro mondo dello sport e dei teleromanzi, della mitologia e della fantasia metafisica, allora resistere all’assedio di chi vuole manipolare e controllare la società sarà ben difficile. […] i dittatori di domani sapranno certamente unire a quelle tecniche il flusso continuo delle distrazioni, un elemento che già oggi, in Occidente, minaccia di far affogare in un oceano di fatuità la propaganda razionale, indispensabile per la conservazione della libertà individuale e la sopravvivenza delle istituzioni democratiche”.

I genitori farebbero bene a riflettere.

Articolo pubblicato su Sovranità popolare, n°1, maggio 2024

La guerra dentro noi stessi: perché il patriarcato non è una spiegazione

Si può spiegare completamente il fenomeno della violenza di genere contro le donne come un effetto del patriarcato? La comunicazione mediatica suggerisce con insistenza questo collegamento. Ma è davvero così? Esiste una spiegazione unica, valida per tutti casi di violenza? Ecco l’analisi di Patrizia Scanu, psicologa, Gestalt counsellor e formatrice.

Si può spiegare completamente il fenomeno della violenza di genere contro le donne come un effetto del patriarcato? La comunicazione mediatica suggerisce con insistenza questo collegamento. Ma è davvero così? Esiste una spiegazione unica, valida per tutti casi di violenza? O dobbiamo allargare lo sguardo e andare più a fondo? Sicuramente, si tratta di un fenomeno complesso e multiforme, che non si presta a spiegazioni elementari e onnicomprensive e che richiede di considerare con attenzione la potenza evocativa e definitoria del linguaggio. Le parole creano la realtà e a volte ne impediscono la comprensione. Per questo la psicosofia esamina le parole con curiosità e apertura. 

Etimologicamente patriarcato significa “legge del padre” e si riferisce a una forma particolare di famiglia, nella quale il patriarca è a capo di una stirpe. Il concetto è ben delimitato dal punto di vista storico e socio-antropologico e designa il potere incontrastato che i maschi più anziani esercitano su tutti membri – uomini, donne, bambini, servi e schiavi – della famiglia estesa, soprattutto in ambiti dove è fondamentale mantenere indivisi e amministrare in modo univoco i beni della famiglia. Storicamente, se ne possono rinvenire le origini nell’antica Roma e più indietro ancora nella società descritta dall’Antico Testamento.

Nella figura del pater familias romano o del patriarca biblico si sommano il diritto di vita o di morte sui membri della famiglia e nello stesso tempo la protezione nei confronti dei familiari, di cui il patriarca ha la responsabilità e a cui è tenuto da una serie di obblighi anche gravosi. Lo squilibrio di potere è indubbiamente condizione favorevole alla violenza, ma non la contempla necessariamente e non implica sempre oppressione; anche nel mondo patriarcale ogni caso è a sé.

Le nostre società attuali portano l’impronta evidente di un secolare squilibrio di potere fra uomini e donne e tale squilibrio rende più facile ricorrere alla violenza: questo è un fatto che non può essere negato e che in sociologia viene definito come disuguaglianza sociale. Senza andare troppo lontano, possiamo ricordare che fino al 1975 il diritto di famiglia italiano chiamava “capofamiglia” il padre e sanciva la completa subordinazione della moglie al marito nei rapporti personali, in quelli patrimoniali, nelle relazioni di coppia e nei riguardi dei figli.

Tuttavia, se possiamo riconoscere anche nel nostro passato antico e recente una visione marcatamente sessista dei rapporti fra uomo e donna, non appare chiaro come il patriarcato in sé possa essere considerato l’unica causa della violenza di genere (essendo oggi tale struttura familiare piuttosto residuale nelle società occidentali) se non sulla base di un’analogia astorica e solo parzialmente utile alla comprensione del fenomeno. 

Dagli anni ’60 e ’70 (anche prima, negli Stati Uniti) sociologi di diverso orientamento, da Parsons e Bales a Riesman e a Horkheimer e Adorno parlano in coro di «crisi della famiglia» e di «società senza padre»: tale figura è entrata progressivamente in crisi, indebolita nelle sue funzioni tradizionali, che Parsons riconosceva nel procacciare sostentamento economico, nel prendere decisioni strategiche per la famiglia, nel definire le regole familiari e nel controllarne l’osservanza. 

Lungi dall’essere un padre-padrone, l’uomo attuale fatica a darsi un ruolo sociale definito e spesso vive con le donne una relazione competitiva. Non deve perciò meravigliare che la violenza sulle donne sia molto diffusa nelle società del Nord Europa, dove il patriarcato è sepolto da tempo ed è entrata largamente nella mentalità comune l’idea della parità fra i sessi. Per alludere al sessismo ancora presente nella nostra vita sociale, forse sarebbe più adatto il termine “maschilismo”, che indica una modalità relazionale fondata sul dominio, sul possesso e sulla supremazia, invece che sulla cooperazione paritaria e il riconoscimento reciproco fra uomo e donna.

Ma allora come si spiega la violenza di genere? Intanto, è impossibile individuarne una causa unica: si tratta di un fenomeno multifattoriale, al quale contribuiscono in misura notevole e variamente combinata, oltre ai fattori culturali, anche cause individuali e di contesto, come l’immaturità affettiva, l’analfabetismo emozionale, i modelli familiari vissuti da bambini, i modelli dei media (per esempio, la pornografia), i rapporti sociali predatori, lo stress lavorativo, il narcisismo diffuso, la fragilità derivante dalla perdita di ruolo e di potere, la visione materialista della vita, fondata sul possesso, tanto per citarne alcuni. 

Il problema non riguarda solo le donne: la violenza è diffusa anche nelle coppie omosessuali e, magari in forme diverse, colpisce pure gli uomini. Sarebbe un errore considerare la violenza come una prerogativa esclusiva dei maschi. Se vogliamo considerare il problema con lo sguardo più ampio e comprensivo della psicosofia sinergetica, potremmo dire che la violenza di genere è solo uno dei modi nei quali si manifesta la violenza latente nelle nostre società e che si presenta soprattutto nella famiglia, perché lì si esprimono tutte le tensioni e le contraddizioni generate dalla vicinanza e dalla relazione profonda in un contesto sociale profondamente degradato e squilibrato. Noi diventiamo violenti quando non riusciamo a tenere a bada e a trasformare la nostra mente animale (rettiliana e limbica) con la Coscienza. La violenza è cecità spirituale (avidyā) e assenza di empatia. E nelle nostre società quasi tutto congiura a mantenerci al livello più basso della nostra umanità.

Dentro ciascuno di noi, uomini e donne, sono presenti una parte maschile e una femminile, nel senso che incarniamo in noi stessi la dualità metafisica fra due opposti complementari, ben raffigurati dal Rebis alchemico e dalla polarità Yin-Yang nel Tao e descritti anche dai filosofi greci, per esempio dai Pitagorici. In questo senso, possiamo dire che un certo numero di persone (uomini e donne) manifesta un maschile violento, fatto di aggressione, predazione, sopraffazione, dominanza, possesso, competizione, tipiche della nostra natura animale oppure (spesso anche) un femminile sottomesso, vittimizzato, manipolativo, bisognoso, gregario. Quando pensiamo e agiamo usando questa parte arcaica della nostra mente siamo completamente incoscienti di ciò che facciamo e dell’effetto che ha sugli altri e su noi stessi, dato che ci degradiamo ogni volta che agiamo senza coscienza.

Ma noi siamo molto di più: abbiamo una coscienza spirituale, capace di sintonizzarsi con i valori più alti: etica, responsabilità, giustizia, amore, empatia, bellezza, gioia. Ce ne accorgiamo quando siamo creativi (la creatività è il sintomo della nostra natura spirituale), quando facciamo azioni giuste, etiche, amorevoli, quando sappiamo accogliere e dire di no a seconda dei casi. Possiamo immaginare la violenza in una persona che è così presente a se stessa?

Purtroppo, ci portiamo dentro anche la violenza e l’umiliazione millenarie dei nostri avi, sotto forma di memorie genetiche di sopraffazione e di sottomissione, che fanno da terreno fertile per ulteriori azioni dannose, in una catena infinita nella quale siamo contemporaneamente vittime e carnefici, prede e predatori, quando rimaniamo al livello più basso della nostra mente. Per questo dobbiamo stare attenti a evitare la polarizzazione del linguaggio, che semina divisione e odio fra le persone, perfino fra uomini e donne. La guerra fra i sessi è assurda come la guerra fra la nostra parte maschile e quella femminile. Il problema è la guerra dentro di noi, quando perdiamo di vista la nostra natura autentica e tiriamo fuori la bestia inconsapevole, sentendoci vittime o padroni, mentre potremmo contribuire a elevare la qualità delle relazioni umane cominciando da noi stessi.

Articolo pubblicato sul sito dell’editore Terranuova: https://www.terranuova.it/News/Crescita-interiore/La-guerra-dentro-noi-stessi-perche-il-patriarcato-non-e-una-spiegazione

I figli del Covid

Intervista con Andrea Tomasi su Byoblu

I bambini nati durante o dopo la pandemia fanno più fatica ad imparare a parlare. Sono i figli del Covid o, meglio, delle misure anti Covid: mascherine, lockdown, distanziamento.

A dirlo è uno studio dell’Università Autonoma della Complutense di Madrid. Se chiudi i bambini in casa, non li fai interagire con il mondo esterno mentre tu, genitore, magari passi buona parte della giornata davanti al computer a fare smartworking, gli effetti non tardano ad arrivare. La mancanza di interazioni sociali nei primi mesi di vita compromette lo sviluppo cerebrale.

Il confronto fra bambini ante Covid e post Covid

Nello studio sono stati analizzati il vocabolario e la sintassi. Sono stati coinvolti 153 bambini di età tra 18 e 31 mesi. È stato fatto un confronto: una valutazione di un gruppo di bimbi pre pandemia e un gruppo post pandemia. I piccoli cresciuti durante il Covid usavano meno parole distinte: avevano un vocabolario ridotto rispetto a quello dei nati ante Covid.

Quando togli il sorriso e il contatto fisico ai bambini

La psicologia infantile parla chiaro: il contatto fisico, il tatto, il sorriso degli adulti sono alla base della comprensione del mondo sociale. Il processo di apprendimento avviene attraverso interazioni: si impara a parlare perché gli altri ti parlano, ti guardano, ti sorridono. E per emulazione si cresce.

E poi, se parliamo di bambini più grandi e ragazzi, il lockdown ha causato una nuova dipendenza: la dipendenza da strumenti digitali, unici compagni di gioco, complice la DAD, la didattica a distanza. Ce ne ha parlato la psicologa e insegnante Patrizia Scanu. Le misure anti virus – racconta – hanno innescato una serie di problemi ai ragazzi: dalle crisi d’ansia alla depressione.

Il danno maggiore per i bambini più fragili

Tornando allo studio spagnolo ci si chiede se i figli della pandemia sono destinati a “restare indietro”? I ricercatori dell’Università di Madrid mettono in guardia. “Le misure antiCovid – dicono – hanno ha rappresentato un ulteriore fattore di rischio soprattutto per i bambini più vulnerabili per contesto familiare e sociale”.

COVID MASCHERINE PATRIZIA SCANU PSICOLOGIA SALUTE STUDIO

Genderizzazione in corso: disforia di genere e trattamento affermativo

Piazza libertà, puntata 85, 3 dicembre 2023

In questa puntata di “Piazza Libertà” dal titolo “Genderizzazione in corso: l’ ideologica distrazione per la distruzione di massa”, Armando Manocchia si occupa della questione del gender, delle carriere alias, della transizione di genere e non solo.

Spazio anche ai  danni da psico-pandemia e ai nuovi modelli “costruttivi” per essere distruttivi. Lo scopo è sensibilizzare i genitori, gli insegnanti, i cittadini, al fine di contrastare la narrazione dominante di un modello unico e di un governo malato che si vende come unico possibile.

Ospiti di questa puntata: Ines Buonora, mediatrice familiare; Silvia Guerini, esperta di società del controllo e transumanesimo; Patrizia Scanu, insegnante, psicologa e Gestalt counsellor.

ARMANDO MANOCCHIA CARRIERE ALIAS GENDER PIAZZA LIBERTÀ

Oltre la scuola e l’homeschooling

Intervista con Fabio Frabetti su Bordernights del 27 novembre 2023.

Dove sta andando la scuola? Che cosa servirebbe per migliorarla? Che cos’è la pedagogia nera? Di questo e di altro discuto con Fabio Frabetti in questa intervista.

https://www.youtube.com/live/He0NCypVYFg?si=eZ1MPspnHdCvKYmN

La scuola del mondo che verrà

Conferenza di presentazione del libro Oltre la scuola e l’homeschooling. Riparare i danni della pandemia ed educare per il mondo che verrà.

Video della conferenza tenuta venerdì 24 novembre a Vidracco, presso la sala comunale, su invito della Liber School di Damanhur.

Oggi parliamo di Psicosofia sinergetica

Da oggi si può visitare la nuova pagina delle Attività: Psicosofia sinergetica

Per chi cerca nella relazione psicologica un’occasione di esplorazione dell’anima e del senso profondo della vita e della morte.

Indottrinamento scolastico?

Una riflessione sul senso pedagogico degli interventi nelle scuole, anche su bambini molto piccoli, finalizzati alla sessualizzazione precoce e all’intervento medico-chirurgico nella disforia di genere.

Emergender

Piazza Libertà con Armando Manocchia – puntata 72

Armando Manocchia torna ad occuparsi dei bambini e dell’emergenza gender in questa puntata di “Piazza Libertà” dal titolo: “Emergender”.

Una questione già affrontata altre volte in passato che subdolamente passa troppo spesso sottotraccia ma che, oggi più che mai, rappresenta invece un’urgenza sulla quale accendere i riflettori.

Ne discutiamo insieme a Silvia GueriniFrancesca Romano PolettiRomano PalladinoPatrizia ScanuInes Buonora e Giusy D’Amico.