I figli del Covid

Intervista con Andrea Tomasi su Byoblu

I bambini nati durante o dopo la pandemia fanno più fatica ad imparare a parlare. Sono i figli del Covid o, meglio, delle misure anti Covid: mascherine, lockdown, distanziamento.

A dirlo è uno studio dell’Università Autonoma della Complutense di Madrid. Se chiudi i bambini in casa, non li fai interagire con il mondo esterno mentre tu, genitore, magari passi buona parte della giornata davanti al computer a fare smartworking, gli effetti non tardano ad arrivare. La mancanza di interazioni sociali nei primi mesi di vita compromette lo sviluppo cerebrale.

Il confronto fra bambini ante Covid e post Covid

Nello studio sono stati analizzati il vocabolario e la sintassi. Sono stati coinvolti 153 bambini di età tra 18 e 31 mesi. È stato fatto un confronto: una valutazione di un gruppo di bimbi pre pandemia e un gruppo post pandemia. I piccoli cresciuti durante il Covid usavano meno parole distinte: avevano un vocabolario ridotto rispetto a quello dei nati ante Covid.

Quando togli il sorriso e il contatto fisico ai bambini

La psicologia infantile parla chiaro: il contatto fisico, il tatto, il sorriso degli adulti sono alla base della comprensione del mondo sociale. Il processo di apprendimento avviene attraverso interazioni: si impara a parlare perché gli altri ti parlano, ti guardano, ti sorridono. E per emulazione si cresce.

E poi, se parliamo di bambini più grandi e ragazzi, il lockdown ha causato una nuova dipendenza: la dipendenza da strumenti digitali, unici compagni di gioco, complice la DAD, la didattica a distanza. Ce ne ha parlato la psicologa e insegnante Patrizia Scanu. Le misure anti virus – racconta – hanno innescato una serie di problemi ai ragazzi: dalle crisi d’ansia alla depressione.

Il danno maggiore per i bambini più fragili

Tornando allo studio spagnolo ci si chiede se i figli della pandemia sono destinati a “restare indietro”? I ricercatori dell’Università di Madrid mettono in guardia. “Le misure antiCovid – dicono – hanno ha rappresentato un ulteriore fattore di rischio soprattutto per i bambini più vulnerabili per contesto familiare e sociale”.

COVID MASCHERINE PATRIZIA SCANU PSICOLOGIA SALUTE STUDIO

La comunicazione nell’era Covid

Questa intervista è stata condotta da un gruppo di professionisti aderenti all’associazione Consensus Ars Medica e pubblicata sul sito dell’Associazione.

Giovanni Masciarelli, insieme a Consensus Ars Medica, ha intervistato la dott.ssa Patrizia Scanu, psicologa, Gestalt counsellor e formatrice. Abbiamo chiesto la sua opinione sulla comunicazione nell’era Covid.

Con il motto “io resto a casa” è avvenuta una trasformazione nella comunicazione di massa. L’informazione martellante e totalizzante ha assunto caratteri manipolatori generando profondi stati paura. Di conseguenza si è trasformato il tessuto di relazioni su cui si fondano la società, la famiglia, il mondo del lavoro e della scuola.

Nel tempo la manipolazione si è condita di diffidenza, censure, violenze verbali e criminalizzazioni fino a minacce di sospensioni e radiazioni dal proprio lavoro. Ciò ha portato a profonde divisioni. Le persone sono state messe le une contro le altre in ogni contesto sociale.

D’altro canto si è diffusa una mentalità nuova che ha dato origine a esperienze di aggregazione inaspettate e innovative in diversi settori. Qui la comunicazione ha ripreso il suo ruolo di collante, mettendo in relazione persone provenienti da esperienze molto differenti tra loro. La condivisione e la ricerca di vicinanza sono tornate protagoniste nel tessere relazioni umane.

Nel primo video, la dottoressa Patrizia Scanu analizza la comunicazione del mainstream: giornali, televisioni, social.

Comunicazione e manipolazione

Nella seconda parte del video ci parla delle problematiche nelle comunità dei giovani e nella scuola.

Parte seconda: Educazione e bisogni dei giovani

Per approfondimenti:

www.sinergeticapsi.org, www.patriziascanu.it , libro: Emergenza Scuola

Relativamente ai suicidi in adolescenza:

Relativamente all’uso improprio della psicologia sociale:

Relativamente a come è stato pianificato in UK lo Stato della paura:

https://www.lauradodsworth.com/a-state-of-fear

Intervista di Gianluca Spina sul libro “Emergenza scuola”

Qui l’intervista completa: https://iopenso.eu/video/i-ragazzi-sono-resilienti

https://fb.watch/3PurooXImt/

I RAGAZZI SONO RESILIENTI | #IOPENSO
I ragazzi stanno male, ma sono resilienti. Questo il messaggio positivo scaturito dalla splendida conversazione intrattenuta per la piattaforma www.iopenso.eu con Patrizia Scanu (Docente liceale e psicologa) e Giuditta Fagnani (Psicologa), coautrici del libro fresco di pubblicazione “Emergenza scuola”.

Presentazione del libro “Emergenza scuola” presso AsSiS. Intervista del dottor Eugenio Serravalle

Intensa e competente intervista del dottor Eugenio Serravalle sul libro Emergenza scuola. I bisogni ignorati dei nostri figli nella crisi sanitaria, condotta il 17 dicembre 2020.

Intervista di Guido Gheri sulla conferenza stampa alla Camera e sulla manipolazione del consenso

Lunga intervista per Radio Studio 54 sulla conferenza stampa tenuta alla Camera il 9 settembre 2020 insieme alla dott.sa Giuditta Fagnani e sulle tecniche psicologiche di manipolazione del consenso.

  1. Ieri alla Camera ha parlato di scuola. Vuole dirci com’è andata? Quali sono i principali problemi che si preannunciano all’inizio delle scuole?
  2. Si parla molto del patto di corresponsabilità, che i dirigenti chiedono di firmare per rientrare a scuola. Come devono comportarsi i genitori?
  3. Alla fine del suo intervento ha parlato di manipolazione e di tecniche di controllo comportamentale messe in atto dai mass media in questi mesi. A che cosa si riferisce?
  4. Ci può fare qualche esempio di manipolazione?
  5. Sono compatibili democrazia e manipolazione del consenso?
  6. Come ci si accorge di essere manipolati?
  7. Com’è avvenuta la manipolazione in questi mesi?
  8. Che cos’è il debunking?
  9. Ma qual è il fine della manipolazione?
  10. Come ci si può difendere?
  11. Come può aiutare la scuola a essere liberi dentro?

Benessere e salute nella scuola dell’emergenza sanitaria

Conferenza stampa alla Camera dei deputati

Quarantena e rientro a scuola: gli effetti sulla salute psicologica di bambini e adolescenti

Il video del mio intervento si trova anche su Davvero TV:

https://www.davvero.tv/byoblu24-1/videos/distanziamento-e-lockdown-effetti-devastanti-sui-bambini-p-scanu-byoblu24

Buongiorno a tutti!

Ringrazio l’on. Sara Cunial per l’invito e voi qui presenti per la disponibilità ad ascoltarci.

Questo intervento corale di un gruppo di psicologi è rivolto a tutti i genitori e a coloro che si occupano dei bambini e dei ragazzi per compito istituzionale. Noi abbiamo molto a cuore il loro benessere e la loro integrità e per questo sentiamo la responsabilità di comunicarvi, in scienza e coscienza, tutta la nostra preoccupazione per quanto sta accadendo nelle scuole italiane, perché nessuno possa dire in seguito di non essere stato informato sui probabili effetti di lungo termine di un clima di paura prolungato e generalizzato su questa generazione di bambini e adolescenti.

Durante il confinamento obbligatorio in casa, la scorsa primavera, molti psicologi hanno segnalato i rischi dell’isolamento per la salute complessiva della popolazione italiana e soprattutto dei più giovani, sui quali si sono accanite con particolare rigidità le misure restrittive. Benché la quarantena di massa per un periodo così lungo fosse un evento mai verificatosi nella storia, era infatti già vasta la letteratura scientifica sui danni conseguenti alla quarantena e all’isolamento sociale, che comprendono stress post- traumatico, disturbi di adattamento, ansia, sintomi depressivi, perdita di motivazione, senso di affaticamento fisico e cognitivo, sentimenti di autosvalutazione, tristezza, rabbia, paura e colpa, aumento della violenza e dell’aggressività, sospettosità paranoide, suicidio. Potete trovarne documentazione sul sito https://comunicatopsi.org/.

In un’intervista del mese di agosto[1], il prof. Gabriele Sani del Policlinico Gemelli ci informa che dagli studi in corso risulta che l’80% della popolazione ha sviluppato sintomi ansiosi e depressivi, anche gravi.

Oltre 700 psicologi e psichiatri a fine aprile hanno lanciato un allarme[2], rivolto alle autorità e alla popolazione, che non è stato evidentemente raccolto. Facevamo presente, nel Comunicato, che, come la ricerca dimostra, il malessere psicologico ha effetti negativi sulla salute fisica, perché indebolisce le difese immunitarie, proprio in un momento in cui la protezione della propria salute generale mediante uno stile di vita sano e all’aria aperta, una sana alimentazione, una saggia gestione delle proprie emozioni sarebbero indispensabili per affrontare con successo una malattia virale.

Invece, i media hanno continuato a diffondere allarme e paura anche quando l’impatto straordinario di ricoveri nei reparti di terapia intensiva era cessato; quando per fortuna, anche grazie ai medici che hanno fatto le autopsie, trasgredendo le indicazioni ministeriali, sono state trovati farmaci e cure per la malattia, riducendo drasticamente il numero dei morti; quando i numerosissimi studi scientifici svolti in tutto il mondo hanno permesso di cominciare a comprendere meglio la malattia ed hanno evidenziato che, a differenza degli anziani e di adulti affetti da altre patologie, i bambini e gli adolescenti si ammalano pochissimo di Covid-19 oppure manifestano sintomi lievi e molto raramente hanno bisogno di terapie intensive.

Per questo, correttamente il CTS ha evidenziato, nel verbale n. 82 del 28 maggio 2020, che “L’infezione da SARS-CoV-2 in Italia, nell’età evolutiva (0-18 anni), è stata a oggi, documentata in circa 4.000 casi: il 7 % ha richiesto il ricovero ospedaliero (più numerosi nel primo anno di vita e nell’età preadolescenziale) e 4 decessi (tutti in pazienti con gravi patologie preesistenti). Nei bambini e nei ragazzi le forme cliniche sono prevalentemente paucisintomatiche, lievi e/o moderate, eccezionalmente si sono avuti 3 casi gravi che hanno necessitato di cure intensive”.

Perciò, vogliamo rassicurare i genitori: non temete per i vostri bambini e ragazzi, abbiamo delle buone notizie dalla ricerca. Possiamo rilassarci un momento e tirare il fiato.

Il Covid ora si può curare con successo nella stragrande maggioranza dei casi e bambini ed adolescenti non sono una fascia di popolazione a rischio di conseguenze gravi. Ad ulteriore conferma, uno studio molto ampio e importante[3] condotto in Gran Bretagna e pubblicato il 27 agosto sul British Medical Journal, che raccoglie i dati su bambini e adolescenti ricoverati in 183 ospedali britannici, ci informa che bambini e adolescenti rappresentano solo l’1-2% dei casi di ricovero per Covid-19, hanno un minore rischio di infezione rispetto agli adulti, che per loro nella stragrande maggioranza dei casi è blanda o asintomatica, con pochissimi casi di morte (6 sui 651 bambini ricoverati, meno dell’1%), tutti con gravissime patologie preesistenti. Questo dato emergeva già in Cina a gennaio-febbraio, come evidenzia una ricerca retrospettiva cinese5[4] pubblicata a giugno su Pediatrics: il 94,1% dei bambini infettati aveva superato la malattia senza problemi, poiché era asintomatico aveva sintomi lievi o moderati; su 2351 casi sospetti o accertati, solo un morto di 14 anni.

In compenso, i danni psicologici derivanti dalla quarantena e dall’interruzione scolastica sono davvero gravi, diffusi e allarmanti, come mostrano decine di studi scientifici nazionali e internazionali. Dall’indagine dello scorso giugno del Gaslini di Genova sullo stato psicologico dei bambini e adolescenti a tre settimane di distanza dal lockdown emergono alcuni elementi di criticità sul loro stato emotivo, a prescindere dalla condizione psicosociale di partenza. Il professor Lino Nobili, direttore della Neuropsichiatra Infantile del Gaslini di Genova spiega che “nel 65% di bambini di età minore di 6 anni e nel 71% di quelli di età maggiore di 6 anni (fino a 18) sono insorte problematiche comportamentali e sintomi di regressione”.

Chiusi in casa, brutalmente separati dai loro coetanei, bombardati di notizie e di immagini terrorizzanti, privati di ogni sostegno psicosociale, i bambini e gli adolescenti, specie i più fragili a livello personale, socioeconomico e familiare, hanno già pagato un prezzo altissimo e secondo noi non giustificato per le misure estreme di contenimento adottate. Il Centro di Gravità, fondato da Giulietto Chiesa, partendo dall’autorevole premessa pedagogica di Benedetto Vertecchi e da un’analisi dei dati scientifici disponibili dei prof. Bizzarri e Prestininzi, già a marzo aveva proposto alla Ministra Azzolina un piano di rientro a scuola almeno parziale per il mese di maggio, fondato sui criteri di gradualità e volontarietà, ma è rimasto lettera morta. Mentre i nostri ragazzi erano segregati in casa, in tutti i Paesi europei le scuole hanno riaperto già fra aprile e maggio; in Svezia non hanno mai chiuso. Eppure, non ci sono stati picchi epidemici e di ricoveri in terapia intensiva dopo la riapertura delle scuole. Un report dell’Agenzia per la Salute pubblica svedese[5] a metà luglio constatava che, fra febbraio e giugno c’erano stati 1124 casi confermati di Covid-19 fra i minori in Svezia, circa lo 0,05% dei bambini e degli adolescenti, esattamente la stessa percentuale della Finlandia, che aveva adottato il lockdown. In compenso, gli scolari svedesi stavano meglio a livello mentale ed educativo. Inoltre, non c’era alcuna evidenza di un rischio maggiore per gli insegnanti rispetto ad altre categorie di lavoratori. Le previsioni più pessimistiche sono state smentite dai fatti. Vi ricordate l’infausta previsione del CTS di fine aprile che prevedeva oltre 150mila ricoveri in terapia intensiva entro giugno? Era così poco attendibile, che il prof. Zangrillo potè dire il 30 maggio che il virus era “clinicamente morto”, ma tanto bastò a tenere le scuole chiuse. Uno studio recente pubblicato dal British Medical Journal[6], che esamina i dati provenienti da diversi Paesi, conclude che 1) i bambini hanno minore probabilità di infettarsi rispetto agli adulti; 2) contraggono una passeggera infezione alle vie respiratorie superiori e mostrano sintomi lievi; 3) sono scarsamente infettivi nell’ambiente domestico, essendo responsabili solo di una percentuale dei contagi che, a seconda degli studi, varia da 0 al 10%; 4) non vi sono prove di insegnanti contagiati dai loro allievi; 5) ci sono evidenze molto scarse di un effetto del Covid-19 su bambini con comorbidità, al contrario degli adulti. La conclusione è che “al momento attuale, non sembra che i bambini siano super-diffusori.”

“Nemmeno un solo bambino è finito in ospedale con il Coronavirus dopo la riapertura delle scuole a giugno”, titola con enfasi il 23 agosto un articolo del giornale britannico The Telegraph[7]. Nei mesi estivi, i bambini hanno ripreso ad uscire, a giocare, a frequentare i coetanei, senza conseguenza drammatiche. Gli adolescenti si sono frequentati nuovamente, com’è naturale. Perché allora non rimandarli a scuola normalmente, in modo da rimediare per quanto possibile al danno gravissimo già subito? Perché costringerli a misure di controllo sanitario eccezionali e gravemente lesive dei loro diritti naturali alla socialità, al movimento, al gioco, all’apprendimento sereno e gioioso? Il rischio di causare in loro patologie psichiche gravi o gravissime è molto elevato, a fronte di un basso o bassissimo rischio sanitario. Misure eccezionali richiedono prove eccezionali. Ma quali sono queste prove? Dov’è la valutazione del rischio psicologico? Possibile che nessuno ci abbia pensato nel CTS? Alcune misure previste potevano avere senso durante il momento peggiore dell’epidemia, ma ora appaiono ben poco giustificate. I positivi di oggi sono quasi tutti asintomatici, cioè sani, cioè inoffensivi. Lo stesso immunologo statunitense, dr Anthony Fauci, membro eminente della Task Force per il Coronavirus, ha dichiarato in conferenza stampa ufficiale[8] mesi fa che “l’unica cosa di cui storicamente le persone devono rendersi conto è che, anche se c’è una trasmissione asintomatica, in tutta la storia dei virus respiratori di qualsiasi tipo la trasmissione asintomatica non è mai stata la causa dei focolai. Il responsabile dei focolai è sempre una persona sintomatica. Anche se c’è un raro caso di persona asintomatica che potrebbe trasmettere, un’epidemia non è determinata dai portatori asintomatici.” Ripeto: Fauci dice che solo chi ha i sintomi può essere causa di focolai infettivi. I positivi di oggi per lo più non hanno sintomi, cioè sono SANI. E anche questa è una buona notizia, sebbene i media sembrino preferire quelle cattive, e chiamare “casi” o “contagiati” individui sani con tracce di virus al tampone, che non misura la carica virale.

Per darvi un’idea vivida di che cosa aspetti i bambini italiani al rientro a scuola, vi leggo però un messaggio arrivato da un’insegnante di scuola primaria il 2 settembre: “Dunque, oggi pomeriggio, in videoconferenza, si è svolto il Corso di Formazione anti Covid sulle misure di sicurezza e applicazione del protocollo stilato dalla scuola, in base alle normative dettate dal CTS. Dopo lunga delucidazione da parte del formatore e del medico che, per il PERIODO di emergenza, affiancherà le scuole del nostro distretto, si è arrivati ad una conclusione: Che non si può lavorare! Fermi nei banchi ad un metro di distanza, due dal docente, senza mascherina (se non si muovono) … Con mascherina se si avvicinano di pochi centimetri a chiunque altro. I fazzolettini con reflussi organici buttati in appositi contenitori. Tutto il materiale didattico (ma anche i giocattoli, alla materna) sarà esclusivamente ad uso personale… vietato lo scambio anche temporaneo. Ogni verifica (in fogli) una volta consegnata, sarà raccolta con i guanti, dal docente, che la dovrà mettere in quarantena per almeno 48h prima di correggerla, ogni libro prestato o preso in biblioteca pure. Tutte le superfici continuamente sanificate. È preferibile che ogni docente, abbia un sacchetto proprio per i gessetti (per la lavagna) … Le finestre aperte ogni ora, anche in caso di pioggia. L’impianto di riscaldamento continuamente controllato. La ricreazione, fatta da seduti in classe se piove o in piccoli gruppi a distanza di un metro (??), vedrà l’alunno ingurgitare velocemente lo snack… e rimettersi la mascherina, fermo, senza agitarsi e senza alzare la voce. I bagni sanificati ad ogni passaggio… Non si potrà alzare la voce (troppi droplet), non si potrà cantare, suonare uno strumento (andrebbe sanificato), usare un PC della scuola (per lo stesso motivo), non si potranno fare attività di laboratorio, non si potrà lavorare a coppie o a gruppi. La lezione sarà SOLO frontale… la PEGGIORE per i ragazzi con BES, per non parlare degli iperattivi inchiodati ai banchi… Fino allo sclero! E con i bimbi disabili… ne vogliamo parlare? “

Poi, continua la docente, “Sarà istituita la saletta Covid, dove, in caso di sintomi sospetti, l’alunno sarà portato in attesa che i genitori vengano a prenderlo, mentre il referente Covid avviserà la ASL e cercherà di risalire alle frequentazioni pregresse (con l’influenza ti voglio! I sintomi sono uguali!). Lo starnuto nel gomito o nel fazzoletto (ma i più piccoli lo ricorderanno?). I maestri NON POTRANNO soffiare il naso ai più piccoli… Non potranno abbracciare i bambini che piangono (e i bambini a scuola piangono, anche alle medie). Tutto a distanza, sempre! Per le attività motorie, svolte senza mascherina, le distanze dovranno essere di 2 metri, ma assolutamente banditi sport di squadra, gruppo e contatto. I ragazzi eseguiranno un corpo libero FERMI sul posto. La Palestra sarà sanificata dal personale ATA ad ogni cambio d’ora. La docente, se adoperati, sanificherà gli attrezzi. Vi saranno percorsi, cartelli, segnaletiche, tutto nel più rigido controllo, sanzionato se si rendesse necessario. Il mio è un istituto comprensivo e non c’è stato UN solo docente, di ogni ordine (materna, primaria e medie) che non abbia alzato gli occhi in modo miserevole esclamando: “Ma come si lavora 6/8 ore così??”. I due preposti alle informazioni, pur comprendendo il nostro sgomento, in tono monocorde, ripetevano che: QUESTA È LA NORMATIVA per TUTTI e che la differenza tra UN’AZIENDA e UNA SCUOLA… è ABISSALE! Ma la normativa è uguale. Chi, per un solo attimo, ha pensato che tornare a scuola sarebbe stato come prima, non si illuda. [Seguono 44 pagine con dettagli da terapia intensiva] “, conclude sconsolata la maestra.

Questa infatti non è scuola, è un incubo sanitario. Parecchi docenti stanno chiedendo aspettativa non retribuita, pur di non rendersi complici di questo orrore. Quelli che rimarranno, nonostante l’abnegazione e la dedizione che li spingerà a tentare i miracoli, come sempre, si troveranno presto in dissonanza cognitiva, non avendo più alcun margine di libertà di insegnamento e dovendo gestire il malessere degli alunni. Ci aspettiamo che anche loro possano manifestare un disagio psicologico. Un eccesso di medicalizzazione del genere, per i danni irreparabili che infligge al sano sviluppo dei bambini, specie ai più piccoli, somiglia di più ad una forma di maltrattamento sistematico e organizzato, una forma di ipercura istituzionale, con esiti devastanti per loro e per la società intera, tanto più perché sostenuto dall’autorità. Si chiede ai bambini di rinunciare ad essere bambini, si inducono in loro fobie e senso di colpa, li si invita a segnalare i trasgressori. Chi ne ottiene un vantaggio? Loro non di sicuro, magari qualcun altro, magari chi parla compiaciuto di una “nuova normalità”, come se la disumanità fosse un destino senza ritorno. Come minimo, questi ragazzi odieranno la scuola, e a ragione. Ricordiamo che per l’OMS è maltrattamento all’infanzia quello “che ha come conseguenza un danno reale o potenziale alla salute del bambino, alla sua sopravvivenza, sviluppo o dignità nel contesto di una relazione di responsabilità, fiducia o potere”. Privare un bambino di tutto ciò che gli permette una crescita sana e felice proprio nel contesto della scuola che ha come scopo quello di custodirne e svilupparne le infinite potenzialità è contrario ad ogni principio pedagogico, psicologico e di umanità. Non c’è ragione al mondo che lo possa giustificare. Ed è certamente un danno, uno dei più gravi che si possano infliggere all’infanzia. Un attentato imperdonabile al futuro dei bambini, ai cui responsabili verrà chiesto conto dal tribunale della storia.

Poiché il rischio zero non esiste, che senso ha concentrare ogni sforzo sanitario ed una spesa pubblica enorme per contrastare un’unica patologia che non colpisce i bambini e gli adolescenti se non in modo del tutto marginale, trascurando tutto il resto? La salute, secondo la definizione OMS, è “un completo stato di benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza di malattia”. La salute è un diritto, non un obbligo, e va protetta nella sua globalità. Non c’è salute senza benessere psicologico e non ci sono né salute né benessere senza relazioni sane e soddisfacenti[9] [10]. Imporre mascherine, distanziamento, disinfezione continua degli ambienti, regole da carcere sanitario con tanto di punizioni e minacce, didattica a distanza, esami sanitari invasivi, isolamento sociale e delazione distruggerà la mente dei nostri figli. Come dicono i medici con amara autoironia, magari la cura funzionerà, ma il paziente sarà morto.

L’uso prolungato delle mascherine ostacola la comunicazione verbale e quella non verbale, che rappresenta più del 90% della comunicazione umana e che passa in misura consistente attraverso la mimica facciale (noi umani abbiamo oltre 200 muscoli dedicati solo all’espressione del volto). La percezione e il riconoscimento delle espressioni facciali sono implicati nello sviluppo delle competenze empatiche, nella comprensione delle intenzioni altrui, nel riconoscimento dei volti, nell’espressione e nella comunicazione delle emozioni, come hanno spiegato gli psicologi Ekman e Friesen[11], Baron-Cohen[12] ed altri. Poiché questa abilità, per cui abbiamo una predisposizione innata, si apprende dall’esperienza mediante apposite vie neurali, imporre la mascherina in età evolutiva potrebbe interferire con un processo di sviluppo cerebrale, con la probabile alterazione o compromissione di alcune fondamentali competenze emotive e sociali, indispensabili per una normale vita di relazione. Diciamo “probabile” perché uno studio sperimentale sui bambini non ci risulta che esista ancora, non essendoci precedenti, e comunque incontrerebbe non pochi ostacoli di natura etica, proprio perché potenzialmente dannoso. La ridotta capacità di riconoscimento delle espressioni facciali è correlata da diversi studi alla schizofrenia[13], così come il deficit nella teoria della mente è collegato da Baron-Cohen[14] e altri ai disturbi dello spettro autistico. L’assenza di empatia è stata invece associata al disturbo antisociale e ai comportamenti violenti[15] [16], benché gli studi sugli adolescenti non abbiano ancora condotto a risultati conclusivi, per ragioni soprattutto metodologiche[17] [18].

Il distanziamento fisico inibisce la socialità, il contatto e la vicinanza che sono i bisogni più fondamentali di ogni essere umano, anzi, di ogni mammifero, come ha spiegato magnificamente l’etologo Frans De Waal nel suo libro L’ultimo abbraccio. Bloccare un impulso naturale come la socialità, che è connesso alla produzione di ossitocina, l’ormone dell’amore, dei legami e dei comportamenti prosociali, può generare, come  effetti a breve termine, sentimenti di disperazione, incertezza, tristezza o insicurezza[19]  [20] [21] [22],  disturbi  emotivi,  disturbi  del  sonno,  irritabilità  e  agitazione  psicomotoria, sindromi depressive, disturbi d’ansia, stress e burnout[23] [24]. A lungo termine, ci possiamo aspettare, sulla base delle ricerche disponibili sull’isolamento sociale e degli effetti sul sistema immunitario, depressione[25] [26], diminuzione dell’autostima[27], diminuzione della capacità di apprendere[28], diminuzione della competenza empatica[29] [30], ridotta resilienza[31], infiammazione e malattie autoimmuni[32], ipertensione[33] [34] [35] [36], patologie cardiache[37] e oncologiche[38], disturbi del comportamento alimentare[39], disturbi comportamentali[40]. Non possiamo offrire dati certi sul futuro, perché una situazione come questa non si è mai verificata a memoria d’uomo. Si tratta di una sorta di esperimento sociale senza preventiva valutazione etica. Ma sulla base di ciò che sappiamo, ci aspettiamo dall’insieme di queste misure disumanizzanti protratte nel tempo un incremento non quantificabile ora di casi di ansia, fobie, depressione, suicidi, dipendenze, ossessioni di igiene, pensieri deliranti[41], sospettosità paranoide, ipocondria. L’allarme sull’aumento dei suicidi e delle morti per overdose di stupefacenti negli studenti delle superiori in conseguenza del Covid-19 arriva già dagli Stati Uniti. Il dottor Robert Redfield, direttore del CDC, ha affermato a fine luglio che le morti per suicidio e quelle per overdose hanno superato quelle per Covid fra i giovani delle superiori[42]. Gli autori una ricerca pubblicata ad aprile su una importante rivista di psichiatria scrivono: “Dal punto di vista della prevenzione del suicidio, è preoccupante che la strategia sanitaria cruciale per la crisi da Covid-19 sia il distanziamento sociale”[43]. [Per i giornalisti: possiamo consegnarvi alla fine l’elenco puntuale degli studi scientifici a cui facciamo riferimento per ogni singola affermazione].

E poi misure invasive e di dubbia utilità come il tampone, per di più ripetuto, l’isolamento dei presunti “sintomatici” o, peggio ancora, degli asintomatici (cioè SANI), la negazione del contenimento emotivo tramite l’abbraccio, le carezze, il sorriso, il gioco, gli insegnanti trasformati in carcerieri e i dirigenti in sceriffi, che effetto faranno sui più piccoli? Ma voi vi ricordate il vostro primo giorno di scuola? Come lo vivreste in una situazione del genere, soli e immobili nel vostro banco, senza vedere in faccia né i compagni né le maestre, prelevati, isolati e tamponati dal 118 nel naso con uno stecco di 13 cm alla prima febbre, senza giochi, senza canto, senza risate, senza contatto fisico con nessuno, davanti ad una maestra piena di paura che vi tratta come un appestato e vi sgrida ad ogni movimento? Vorreste ritornarci il giorno dopo? Penso proprio di no. Questa, ripeto, non è scuola nemmeno lontanamente. È una follia di menti insane degna della peggiore distopia.

Si sta minando la salute psichica di milioni di bambini e adolescenti per l’asserita, ma non dimostrata intenzione di proteggerli da un rischio quasi inesistente per loro o, peggio ancora, per l’asserita, ma non dimostrata finalità di proteggere altri a prezzo del loro sacrificio. Non è sicurezza ciò che distrugge l’anima e tutto ciò che ci rende umani, ma ha un altro nome più oscuro, che lascio a voi trovare. Ricordo che l’isolamento sociale prolungato dei detenuti è considerato una forma di tortura. E nemmeno la didattica a distanza è una soluzione, perché oltre all’isolamento sociale, alla dipendenza, ai danni alla salute psicofisica che sono ampiamente documentati come conseguenza dell’uso prolungato dei dispositivi digitali, con la DAD, specie per i più piccoli, ma non solo, non sono possibili l’apprendimento della scrittura, l’apprendimento della lingua, l’apprendimento della matematica, delle scienze sperimentali, del disegno, della musica, della motricità, le attività di laboratorio tecnico-professionali, il dialogo, la discussione, le competenze sociali, l’emozione della scoperta, le competenze di cittadinanza democratica, la costruzione del sé, l’autostima, per citarne solo alcune. Senza contare la discriminazione sociale che ne consegue e la sistematica violazione della privacy.

La domanda che vi rivolgo perciò è se è davvero questo che vogliamo per i nostri bambini. Pensate che ricordo avranno della scuola. La sofferenza psicologica dei bambini può manifestarsi a scoppio ritardato e in modi imprevedibili. Secondo un’importante ricerca statunitense guidata dal prof. Loades[44], l’impatto della solitudine sulla salute mentale potrebbe durare almeno 9 anni, gli effetti potrebbero essere ritardati e potrebbero essere necessari fino a 10 anni per capire la portata dell’impatto sulla salute mentale creato dalla crisi Covid-19. Nessuno di noi adulti, genitori, insegnanti, politici, medici, esperti del CTS ha lontanamente il diritto di infliggere una simile sofferenza a chi è affidato alle nostre cure. Noi siamo i custodi dei bambini, non i loro aguzzini. Noi comprendiamo i genitori che hanno paura della malattia e vogliono proteggere i propri figli. L’obiettivo è giusto, è il mezzo che non va bene. Non possiamo sacrificare i loro diritti alla nostra paura, dandoci la penosa giustificazione che insegniamo loro ad essere responsabili. Noi siamo responsabili per loro, non loro per noi. Se non li proteggiamo dal vero pericolo, che per loro non è il virus, ma la perdita dell’infanzia e della socialità, ne porteremo per sempre il peso sulla coscienza e non potremo dire a noi stessi che non lo sapevamo o che la nostra incolumità era più importante della loro. I bambini sono sacri e vanno rispettati; sono un fine, non un mezzo. Il gioco è un diritto umano fondamentale, come il movimento, il contatto, la spontaneità, la gioia, la relazione calda, sintonizzata e amorevole. Nessuno li può comprimere e ogni intervento attuato in nome della salute deve proteggerli con ogni mezzo. Inutile inserire nelle scuole lo psicologo, se mancano la normalità, la serenità e la gioia, in una parola la VITA. È la relazione che cura e getta le basi dell’intersoggettività. Se vogliamo proteggere la loro salute, bisogna trovare una strada meno dannosa.

Tuttavia, c’è un’altra buona notizia. Possiamo fare molto per i nostri figli. Possiamo imparare noi e insegnare loro a gestire la paura, la rabbia e la tristezza, a proteggere se stessi, a riconoscere i segnali di disagio, a proteggere la loro gioia interiore; possiamo intervenire quando i loro diritti vengono violati; possiamo creare intorno a loro un ambiente accogliente, vivo e nutriente, a contatto con gli altri e con la natura; possiamo insegnare loro come proteggere la propria salute con uno stile di vita equilibrato; possiamo insegnare loro ad ascoltare il proprio Sé profondo e a difendersi dalla manipolazione, che nella comunicazione mediatica di questi mesi è stata usata a profusione, con tutto il repertorio delle più scaltrite tecniche psicologiche di controllo del comportamento, che noi psicologi abbiamo riconosciuto al volo. Per esempio, possiamo insegnare loro che le leve della manipolazione sono la paura, il senso di colpa, l’inadeguatezza, la riprovazione sociale e la spinta al conformismo, la denigrazione dell’altro, la contrapposizione di idee e posizioni, l’indifferenza al bene individuale, mascherata dall’appello alla responsabilità per gli altri, l’incoerenza, la falsità ripetuta, l’uso divisivo e svalutante del linguaggio, la pressione informativa, che consiste nel dare come scontato ciò che invece andrebbe dimostrato.

Se vogliamo bene ai nostri figli, aiutiamoli a crescere integri. Dove c’è divisione e isolamento, nella persona o nella società, c’è solo infelicità e dolore. E noi vogliamo promuovere per loro gioia, bellezza, vita, verità, amore, creatività, cooperazione, da cui dipendono salute e benessere.

Noi psicologi di SinergEtica saremo a vostra disposizione per condividere con voi risorse di resilienza, ossia l’attitudine ad affrontare le avversità, uscendone più forti. Preferiamo prevenire che curare e ci rivolgiamo a tutti, senza distinzione. Abbiamo sofferto insieme i lutti, il disagio e gli effetti economici tragici di questa situazione. Condividiamo tutti insieme un destino comune. Non siete soli, e noi siamo tanti. Come disse il Mahatma Gandhi, “La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia”.

Che questo resti a futura memoria.

Dott. Sa Patrizia Scanu, Psicologa clinica, Gestalt Counsellor, docente liceale

A nome di SinergEtica

Roma, 9 settembre 2020


[1] https://www.adnkronos.com/fatti/crthe%20naca/2020/08/19/degli-italiani-soffre-ansia-depressione- lockdown_eJDop548f1ssMU1mJWlZhO.html

[2] https://comunicatopsi.org/

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[5] https://www.reuters.com/article/us-health-coronavirus-sweden-schools/swedens-health-agency-says-open-schools- did-not-spur-pandemic-spread-among-children-idUSKCN24G2IS

[6] Munro, A.P.S., Faust, S. N. (2020). Children are not COVID-19 super spreaders: time to go back to school. Archives of Disease in Childhood, 105:618-619.

[7]https://www.telegraph.co.uk/news/2020/08/23/reopening-schools-june-not-single-child-hospitalised-coronavirus/

[8] Conferenza stampa del 28 gennaio 2020, dal minuto 44:

https://m.facebook.com/story.php?story_fbid=621443098640158&id=573990992631231&_rdr (pagina ufficiale del U. S. Department of Health and Human Services). Sottotitoli in italiano qui: https://peertube.it/videos/watch/3f49977a-79e8-49c9-adff- 4fe93a9fd813?fbclid=IwAR0bx4IJ09tGWRZa2OSsuiE9LKAOPiCwRtt-XF4sqq4CvPkl47K-DTeh51s

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Roma, 9 settembre 2020


[1] https://www.adnkronos.com/fatti/crthe%20naca/2020/08/19/degli-italiani-soffre-ansia-depressione-lockdown_eJDop548f1ssMU1mJWlZhO.html

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Coraggio di vivere o paura di morire?

di Benedetto Tangocci, Flaminia Elettra De Rossi, Marina Thellung, Rosanna Camerlingo, Patrizia Scanu, Marina Bonadeni

Chi ha paura muore ogni giorno,
chi non ha paura muore una volta sola.”

Paolo Borsellino

L

a citazione del grande magistrato italiano (parafrasi di un passo del Giulio Cesare di Shakespeare) racchiude in due poetiche affermazioni l’alternativa tra il lasciarsi sopraffare dalla paura e il riuscire superarne il potere paralizzante. Naturalmente la morte quotidiana si colloca su un piano diverso rispetto alla morte fisica, nondimeno il valore ad essa attribuito non è sentito affatto come inferiore. Molte altre citazioni avrebbero potuto aprire questo articolo con analoga efficacia, citazioni tratte dalla narrativa, dal cinema o da grandi biografie, come in questo caso. Ma che cosa ha da dire a proposito la psicologia, che cosa sappiamo sulla qualità della vita conseguente al vivere nella paura oppure – nelle parole di Amleto – “to take arms against a sea of troubles, and by opposing end them”?

La psicologia ha molto da dire, e molto ha detto, sulla paura, sullo stato ansiogeno conseguente, sulle fobie e sulle conseguenze a lungo termine di un evento traumatico (PTSD). Sappiamo che la paura detiene un’importante funzione evolutiva, ci allerta rispetto a un pericolo e attiva rapidamente le risorse per fronteggiarlo immediatamente (fight, flight, or freeze). Secondo il noto neurobiologo Joseph LeDoux (1996), uno stimolo percettivo (ad esempio una canna da irrigazione in giardino) raggiunge il talamo che smista il segnale “grezzo” sia all’amigdala che alla corteccia sensoria. La prima via è rapida, ma imprecisa e se lo stimolo può sembrare pericoloso (ad esempio un serpente) mette immediatamente in allerta, suscitando una rapida risposta. In alcuni casi una frazione di secondo può fare la differenza. La seconda via è più lenta, ma elabora accuratamente il segnale, e riconoscendolo correttamente (no, è solo una canna da irrigazione), può interrompere lo stato di allerta, se riconosciuto come improprio. La paura ci è quindi necessaria in limitate e specifiche situazioni. Sappiamo tuttavia anche che se l’attivazione indotta dalla paura permane a lungo termine, o diviene cronica, non solo non è più adattiva, ma comporta numerosi effetti negativi, sia psicologici che somatici. La risposta emotiva è biologicamente funzionale unicamente di fronte ad un pericolo immediato, urgente e di breve durata.

Nondimeno la branca della psicologia che si occupa delle strategie di persuasione raccomanda come altamente funzionale per favorire l’adesione a comportamenti socialmente desiderati, il ricorso a tecniche che sfruttano l’induzione alla paura, con il conseguente suggerimento di adottare il comportamento desiderato per evitare le spaventose conseguenze. Si tratta di tecniche la cui funzionalità allo scopo stabilito è stata dimostrata, ma che dire dei possibili effetti collaterali sulla popolazione e, soprattutto, della loro valenza etica?

Quanto invece alla capacità di gestire e superare la paura, che comunemente chiamiamo “coraggio”, che cosa ne sappiamo? Il termine è facilmente comprensibile a tutti, sebbene come per molte parole di uso comune non sia così facile offrirne una definizione. Già nel Lachete, Platone fa chiedere a Socrate, “Prova dunque a dire cos’è il coraggio?”, iniziando così la ricerca di una definizione che il dialogo non arriva a formulare, sebbene senta come essenziale, poiché solo “dopo potremo indagare come darlo ai giovani, per quanto possibile, attraverso l’esercizio e lo studio”. Tuttavia una definizione sufficientemente condivisa (che sarà argomento del prossimo paragrafo) dovrà attendere ancora molti secoli. Malgrado ciò il coraggio è stato centrale in molte influenti visioni: viene considerato da Platone nella Repubblica come caratteristica essenziale della classe dei guardiani; da Aristotele nell’Etica Nicomachea come prima delle virtù etiche; e successivamente, col nome di Fortezza (Fortitudo), annoverato tra le virtù cardinali da Sant’Ambrogio, da Sant’Agostino e da Tommaso d’Aquino.

Il coraggio nella psicologia

Solo recentemente la psicologia si è occupata di coraggio, soprattutto grazie ad esponenti della cosiddetta “Psicologia Positiva”. Come ai tempi di Socrate, si è riproposta così la questione di trovare una definizione del costrutto. Tra le molte, tra le più adottate, e ad avviso di chi scrive tra le più convincenti definizioni di coraggio, troviamo: “(a) a willful, intentional act, (b) executed after mindful deliberation, (c) involving objective substantial risk to the actor, (d) primarily motivated to bring about a noble good or worthy end, (e) despite, perhaps, the presence of the emotion of fear.” (Rate et al., 2007, 95).

Riguardo ai punti (a) e (b), altri autori (Pury & Starkey, 2010) distinguono tra una dimensione di stato, che come nella definizione appena riportata giunge al coraggio attraverso un processo consapevole, e una dimensione di tratto di personalità, più costante e inconsapevole. Tuttavia, e sebbene indubbiamente esistano persone più inclini ad atti di coraggio, il costrutto così definito è risultato vago e poco utile alla ricerca, che ha perciò prevalentemente preferito guardare al coraggio come a un processo.

Relativamente al punto (e), Rachman (2010) afferma che “approaching a potentially dangerous situation in the absence of subjective and physiological indices of fear is regarded as fearlessness, not courage.” (ivi, 93). Tuttavia la mancanza di paura può essere congenita; può essere pura incoscienza; ma può anche essere conquistata tramite ripetuti atti di coraggio in situazioni analoghe. L‘autore, studiando professionalità esposte a forti rischi, conclude che “yes, it is possible for people to attain the noble quality of courage by study and training” (ivi, 105) e che “the successful practice of courageous behavior leads to a decrease in subjective fear and finally to a state of fearlessness.” (ivi, 106). Pertanto la precisazione di Rate che la paura può essere, o meno, presente, appare preferibile ad altre definizioni che ne sottolineano invece la necessaria presenza.

Più delicata è la parte (d) della precedente definizione. Infatti la percezione di “noble good or worthy end” è altamente soggettiva e talvolta opinabile. A titolo di esempio:

running into a burning building to save a child is courageous; running into a burning building to save a favorite computer is probably not. What about running into a burning building to save a pet? The appraised courageousness of this action probably depends on the observer’s opinion about pets. (Pury & Starkey, 2010, 83)

La percezione di un atto di coraggio o di codardia può tuttavia ulteriormente essere complicata. Supponiamo, ad esempio, di avere ricevuto la diagnosi di un grave tumore ad uno stato avanzato e il suggerimento di intraprendere un percorso chemioterapico che potrebbe ritardare il decesso. Immaginiamo uno scenario in cui dover scegliere tra la prospettiva di un anno di vita in cui dover convivere con frequenti ospedalizzazioni e forti nausee o quella di pochi mesi trascorsi nel luogo che più ci aggrada, liberi da effetti collaterali. Quale scelta sarebbe coraggiosa e quale no? La risposta è inevitabilmente soggettiva. Probabilmente un materialista riterrebbe codardia sottrarsi alle terapie e coraggio affrontarle. Altri tuttavia potrebbero ritenere codardia tentare di prolungare la mera esistenza fisica a discapito della qualità della vita da loro ritenuta prioritaria.

Rimanendo strettamente legati alla definizione di coraggio avrebbero entrambi ragione, dal loro punto di vista. Come nell’esempio dell’edificio in fiamme, siamo tutti facilmente concordi che rischiare la vita per salvare un bambino sia un atto coraggioso, come pure che rischiarla per salvare un computer sia folle; ma rischiarla per salvare un animale è coraggioso o folle? E non farlo è saggio o vile? Poiché la risposta è soggettiva, lo è inevitabilmente anche la percezione di chi agisce, i cui vissuti soggettivi di coraggio o di codardia sono riconoscibili come tali unicamente da chi ne condivide i valori. Se dall’esterno è quindi sempre possibile il fraintendimento del vissuto soggettivo, per l’individuo è tuttavia più semplice distinguere tra scelte effettuate seguendo i suggerimenti della paura o scelte compiute per impulso del coraggio. Lasciamo quindi all’individuo il compito di giudicare se stesso con sincerità e passiamo a valutare gli esiti del vivere consigliati dalla paura o dal coraggio.

Conseguenze della paura o del coraggio

Come già scritto nell’introduzione, la paura è un’emozione necessaria alla rapida risposta in una situazione di pericolo immediato, ma altamente dannosa se prolungata nel tempo. Sulle conseguenze, sia psicologiche che fisiche, dello stress provocato da stati di paura intensi e/o duraturi sono stati scritti migliaia di libri e di articoli. Tra i possibili esiti psicologici troviamo lo sviluppo di depressioni, ansie, fobie, attacchi di panico, disturbo da stress post traumatico; e per ognuno di questi aspetti esiste una nutrita letteratura a riguardo. Quanto ai possibili esiti somatici, occorre innanzitutto osservare che, sebbene l’ipotesi che uno stato emotivo possa influenzare dinamiche fisiologiche sia stata osteggiata per anni, e non sia ancora stata pienamente recepita dai medici meno aggiornati, la ricerca ne ha chiaramente dimostrato la validità oramai da decenni. Con la nascita della PNEI (psiconeuroendocrinoimmunologia), disciplina che indaga le interazioni tra psiche, sistema nervoso, endocrino e immunitario, sono arrivate le prime verifiche sperimentali, e ad oggi si possono considerare appurati almeno due principali percorsi biologici tra il vissuto psicologico e la risposta somatica (Ader, 2006): l’asse HPA (hypothalamic–pituitary-adrenal – ipotalamo-ipofisi-corticale del surrene), che stimola la produzione di cortisolo da parte della corticale del surrene; ed il percorso SAM (sympathetic-adrenal medullary – simpatico-adrenomidollare) che lega il locus coeruleus all’attività del sistema neurovegetativo simpatico e, tramite essa, alla produzione di catecolamine da parte della midollare del surrene (Kern, Rohleder, Eisenhofer, Lange, & Ziemssen, 2014). Stati particolarmente intensi o prolungati di paura comportano le sopracitate reazioni fisiologiche da stress e col tempo l’iperattivazione della produzione ormonale può portare a patologie anche gravi.

Lo studio degli effetti del coraggio sulla qualità della vita è invece ancora agli inizi e consta di pochi studi. Tra questi si annoverano principalmente quelli condotti nell’ambito dell’applicazione della Psicologia Positiva al mondo del lavoro, molti dei quali concordano nel concludere che “courage was found to mediate the relationship between psychological capital and flourishing [letteralmente “fiorire”: prosperare]” (Santisi et al., 2020, 9) e che “this is probably linked to the fact that courage was intrinsically constituted and aimed at a noble purpose, and this characteristic has a powerful effect on flourishing” (ibidem). Una ricerca sulla relazione tra coraggio, benessere psicologico e sintomi somatici nella popolazione generale (Keller, 2016) rileva che “higher courage scores were found to predict lower somatic symptom scores” (ivi, 62) e che “courage was shown to significantly predict PWB [Psychological Well-being]” (ivi, 64). Non ci risultano studi psicologici più approfonditi sul tema. Ciò nonostante, poiché il coraggio è, per definizione, un atto intenzionale che comporta per chi lo esegue un rischio oggettivo e sostanziale, implica necessariamente la capacità di gestione della paura, se presente, e pertanto sembra lecito affermare che il coraggio sia in grado di proteggere dai rischi sopra esposti connessi con uno stato di paura particolarmente intenso o prolungato. Infine, per quanto non ci risulta siano stati studiati gli effetti derivanti dal vivere – o anche solo dal leggere – sensazioni analoghe a quelle trasmesse dalla frase in epigrafe a questo testo, credo, e spero, che ognuno abbia provato almeno una volta in vita sua l’emozione correlata e sia in grado di ricordarne la forza pervasiva che ne deriva, anche senza doverne leggere in una ricerca scientifica.

Sinergetica, Movimento di Libera Psicologia

Nel particolare momento storico legato alla primavera/estate 2020, in Italia, un gruppo di colleghi psicologi e psichiatri ha sentito il bisogno di sottoscrivere un comunicato di allarme (https://comunicatopsi.org/) relativo gli aspetti psicologici della gestione dell’emergenza in atto. Successivamente alcuni di noi hanno ritenuto necessario dare vita ad un gruppo che coordinasse attivamente le iniziative scaturite da tale analisi, che si è dato il nome di Sinergetica, Movimento di Libera Psicologia. L’alternativa tra lasciarsi sopraffare dalla paura o coltivare il coraggio è tematica da noi sentita come centrale. Riteniamo che oggi più che mai il coraggio sia indispensabile per recuperare la serenità e la fiducia in sé e negli altri.

Per la sua etimologia “coraggio” rimanda al cuore. Solo chi ama ha coraggio. Per questo l’amore è l’antidoto alla paura. “Coraggio!” è anche una comune esortazione a proseguire nonostante le difficoltà, i piccoli timori o i grandi sconforti, a confrontarsi con i propri limiti e a crescere ogni giorno di più, a rincuorarsi. Per fiorire infatti occorre innanzitutto trovare il cuore di uscire dalla propria cosiddetta “comfort zone”, dove le comodità e le sicurezze rischiano di essere al contempo mura via via sempre più soffocanti. A volte a tal punto che per tenere fuori i pericoli ci troviamo a respirare più anidride carbonica che ossigeno, come avviene indossando le mascherine. Rinunciare ai più elementari rapporti umani sembra a molti indispensabile per proteggersi, forse perché come scriveva Michele Lauro (2016) “il marketing della paura ha un ufficio stampa molto efficiente: serve per aumentare il consenso, esercitare il controllo, assumere il potere”, e così troppo facilmente rischia di farci dimenticare che “il coraggio non è l’assenza di paura, ma piuttosto il giudizio che c’è qualcosa di più importante della paura” (frase attribuita a Ambrose Redmoon).

Poiché il coraggio è avere cuore, ma non solo: il coraggio è lanciare il cuore oltre l’ostacolo, quando non si sa cosa ci sarà dopo. Il coraggio sarà dire “No!” quando vorranno zittire la nostra umanità; quando vorranno far sparire la coscienza come un ornamento inutile. Il coraggio sarà pagare un prezzo, se ci sarà da pagarlo, per un mondo migliore che non vedremo. Il coraggio è quello di Antigone che decide di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice contro la volontà del re di Tebe che l’ha vietata con un decreto. Per la sua disobbedienza morirà murata viva in una grotta, ma per Antigone la legge divina è superiore alle leggi umane. Oggi la chiameremmo “disobbedienza civile”, dal titolo del celebre saggio di Herry David Thoreau che ha ispirato, tra gli altri, il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, o Nelson Mandela. A ben vedere si potrebbe affermare che ogni conquista civile, dall’abolizione della schiavitù al suffragio universale, è in debito verso individui che hanno avuto il coraggio di sfidare leggi umane accettate dai più, ma da loro ritenute inique in virtù di principi considerati superiori, divini o naturali che siano.

Inoltre, accanto al coraggio dei grandi leader che hanno fatto la storia e combattuto per i diritti civili, ci sono forme di coraggio “più silenziose”, meno evidenti, ma altrettanto importanti. Il coraggio di non arrendersi e continuare a sperare. Il coraggio di non fermarsi alla superficie e di approfondire tutto, accettando in tal modo di cambiare anche se stessi. Il coraggio di affrontare la solitudine di coloro che percorrono territori ancora inesplorati. Il coraggio di chi addomestica la paura accogliendo il prossimo con amore. Il coraggio di chi sente la responsabilità verso i propri ideali, verso i propri figli e verso il mondo che un domani lasceremo loro. Non vogliamo risvegliarci un giorno e scoprire che ci è mancato il coraggio necessario quando era ancora possibile fare tutto ciò, poiché crediamo che – come scrisse il poeta Robert Frost in Servant to Servants – “the best way out is always through”. Oggi occorre infatti soprattutto il coraggio della consapevolezza che ripetere a se stessi il mantra “andrà tutto bene” è solo una forma di rassicurazione, mentre la posta in gioco è proprio la qualità della vita, più importante della stessa sopravvivenza. Questa consapevolezza è necessaria giacché – come nel nome della celebre acquaforte di Francisco Goya – “il sonno della ragione genera mostri”, e questo non è il momento di obbedire e “restare a casa”, bensì quello di svegliarsi, attivarsi e riunirsi.

Conclusioni

Gli studi sul coraggio come costrutto psicologico sono ancora agli inizi e ci auguriamo di avere contribuito a fare il punto della situazione. Tuttavia, il coraggio è virtù morale da molti secoli, centrale e trasversale alla religione, all’arte, alla letteratura e al sentire comune. Coltivarlo protegge dai pericoli legati al vivere prolungati stati di paura e migliora la qualità della vita. Purtroppo invece, come afferma in una recente intervista (Amorosi, 2020) Stefano Fais, dirigente di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità, “stanno gestendo il Coronavirus con la paura. Ma la paura è una malattia che indebolisce e rende più fragili. Così masse di persone vengono rese facilmente prede proprio dei virus”. Il distanziamento sociale e il timore del prossimo percepito come possibile untore comportano pericolose conseguenze psichiche e psicosomatiche che nel migliore dei casi sono state completamente ignorate.

Oramai da vari decenni sappiamo che il benessere psicofisico dipende in gran parte dalla qualità delle relazioni interpersonali. Innumerevoli studi, svolti da autori di varie discipline, lo hanno ampiamente dimostrato e interi orientamenti psicoterapeutici, come la Psicanalisi Relazionale o la Psicoterapia Interpersonale, basano l’efficacia dei loro interventi su questa consapevolezza. Non riteniamo pertanto necessario approfondire questa conclamata evidenza, riguardo la quale rimandiamo all’amplissima letteratura esistente. Peraltro, che la qualità delle relazioni sia parte imprescindibile di quella che chiamiamo “qualità della vita”, è risaputo anche in ambiti non psicologici, e da ben prima che la psicologia lo abbia dimostrato. Azioni un tempo quotidiane, come sorridere a viso scoperto, stringersi la mano, abbracciarsi o accogliere l’altro a una distanza di prossimità, sono socialmente, evolutivamente e psichicamente così importanti da rendere necessario che gli effetti della loro soppressione siano dettagliatamente analizzati in un prossimo lavoro.

Qui desideriamo concludere evocando l’immagine del celebre dipinto La DanseII di Henri Matisse, e riportando il commento che l’opera ha suscitato in Derio Olivero (2019), vescovo di Pinerolo: “L’essenza della vita sta nel ‘tenerci per mano’, sta nel creare un cerchio. Tutto il resto scompare. Sotto questo cielo, sulla nostra terra, la cosa più essenziale è riuscire a prenderci per mano.” (ivi, p. 18). Non sappiamo se in questi mesi il vescovo abbia mutato opinione o se adesso riscriverebbe la stessa frase. Sappiamo però che per noi, oggi, è quanto mai urgente riscoprire questa dimensione e soppesare con il necessario coraggio che cosa stiamo perdendo in cambio dell’illusione della sicurezza. Per non correre il rischio di cui ci ha avvertiti Benjamin Franklin (1755): “Those who would give up essential Liberty, to purchase a little temporary Safety, deserve neither Liberty nor Safety”. Di questo coraggio abbiamo urgente bisogno, per la nostra salute individuale, per quella della società in cui viviamo e per quella della società che lasceremo ai nostri figli.

Riferimenti Bibliografici

Ader, R. (Ed.). (2006). Psychoneuroimmunology, Fourth Edition (4 edition). Boston: Elsevier/Academic Press.

Amorosi, A. (2020). Emergenza, Fais: “Prolungarla? Buffonata. Governare con la paura è pericoloso”. Affaritaliani.it. https://www.affaritaliani.it/cronache/prolungare-l-emergenza-buffonate-governano-con-la-paura-ed-pericoloso-687736.html

Franklin, B. (1755). Pennsylvania Assembly: Reply to the Governor, 11 November 1755. Printed in: Votes and Proceedings of the House of Representatives, 1755–1756 (1756). Philadelphia, pp. 19–21. https://founders.archives.gov/documents/Franklin/01-06-02-0107#BNFN-01-06-02-0107-fn-0005

Keller, C., J. (2016). Courage, Psychological Well-being, and Somatic Symptoms. Clinical Psychology Dissertations. 17. https://digitalcommons.spu.edu/cpy_etd/17

Kern, S., Rohleder, N., Eisenhofer, G., Lange, J., & Ziemssen, T. (2014). Time matters – Acute stress response and glucocorticoid sensitivity in early multiple sclerosis. Brain, Behavior, and Immunity, 41, 82–89.

Lauro, M. (2016, 15 marzo). Gabriele Romagnoli, ‘Coraggio!’ – la recensione. Panorama. https://www.panorama.it/cultura/gabriele-romagnoli-coraggio-la-recensione

LeDoux, J. E. (1996). The Emotional Brain. New York: Simon and Schuster.

Olivero, D. (2019). Vuoi un caffè?. Lettera pastorale.
https://www.diocesipinerolo.it/wp-content/uploads/2020/03/Lettera-Mons.-Olivero-2019.pdf

Pury, C. L., S. & Starkey, C. B. (2010). Is courage an accolade or a process? A fundamental question for courage research. In. Pury C., L., S. & Lopez, S., J. (Eds.), The psychology of courage: Modern research on an ancient virtue (pp. 67–87). Washington: American Psychological Association.

Rachman, S., j. (2010) Courage: A Psychological Perspective. In. Pury C., L., S. & Lopez, S., J. (Eds.), The psychology of courage: Modern research on an ancient virtue (pp. 91–107). Washington: American Psychological Association.

Rate, C., Clarke, J., Lindsay, D., & Sternberg, R. (2007). Implicit theories of courage. The Journal of Positive Psychology. 2. 80-98.

Santisi, G., Lodi, E., Magnano, P., Zarbo, R., & Zammitti, A. (2020). Relationship between Psychological Capital and Quality of Life: The Role of Courage. Sustainability, 12(13), 5238.


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Articolo pubblicato sulla rivista di psicologia PiEsse il 20 agosto 2020.

Trasformare la paura di morire per rinascere

Nella nostra memoria storica, i tre principali flagelli dell’umanità sono la guerra, la fame e la peste. Ce li portiamo dentro da generazioni innumerevoli, come fantasmi carichi di minacciosa sventura. La nostra memoria genetica è satura della violenza, della sopraffazione, della morte, del dolore e dell’impotenza vissute dai nostri antenati nelle infinite guerre da cui è funestato il nostro passato. Alla guerra, si associano nella nostra memoria, come gemelli maledetti, la carestia e la peste, con il loro spettrale e lugubre lascito di degradazione, di distruzione dei legami sociali, di sofferenza e di morte. È talmente pervasiva questa memoria, che non riusciamo a pensare a nessun grave problema collettivo senza incorniciarlo in un contesto di guerra, a cui associamo immediatamente la paura della fame e della malattia che non perdona.

L’arrivo del Covid-19, qualunque ne sia l’origine, naturale o artificiale, descritto come un nemico insidioso e invisibile, ci ha drammaticamente riattivato i vissuti delle generazioni passate. Ci ha messi rapidamente nella condizione di vittime inermi e di bambini impotenti e bisognosi dell’autorità paterna per scampare al pericolo. Memori del passato, biologico e storico, infatti, deleghiamo di solito all’autorità il potere di difenderci. La televisione completamente orientata all’emotività e una comunicazione politica terrorizzante e infantilizzante hanno creato potenti immagini collettive di morte, di guerra, di catastrofe. In guerra, si danno ogni giorno i bollettini dei morti e dei feriti, si sospende la normalità del vivere per fronteggiare la minaccia della morte incombente, si convertono le produzioni industriali, si denunciano i disertori e i disfattisti e si considera tale chiunque esprima qualche forma di dissenso. In guerra, ognuno pensa per sé, si preoccupa solo di salvare la pelle, e gli altri sono temibili concorrenti o, peggio, potenziali untori.

E noi ci siamo cascati. Lo scenario della guerra ci ha fatto regredire al livello del maschile animale, alla mera sopravvivenza biologica, al livello più primitivo e istintivo. A questo livello, l’emozione dominante è la paura: paura della malattia, paura della povertà, paura dell’ignoto, paura della perdita, paura della morte. A sua volta, la paura è potente generatore di azioni pericolose e irrazionali. Quando si ha paura, la mente prende scorciatoie insidiose, si perde lucidità, si prendono decisioni affrettate, illogiche, spesso dannose per se stessi e per gli altri. Se infatti la paura ci salva in situazioni di minaccia immediata, può non essere altrettanto efficiente quando la minaccia è sfuggente, complessa, collettiva. Due effetti della paura prolungata sono certi: l’abbassamento delle difese immunitarie per lo stress e l’aumento dell’influenzabilità. Quando siamo influenzabili, ci sentiamo deboli e impotenti e di fatto rinunciamo al nostro potere. Diventiamo pecore impaurite, docili e sottomesse. E poiché siamo i creatori della nostra realtà, ciò che ci aspettiamo che succeda succede effettivamente. In psicologia si parla della “profezia che si autoadempie”. Tutte le tecniche psicologiche di manipolazione mentale fanno leva sulla paura e i dittatori di ogni epoca lo sanno benissimo. Con la paura, si guidano le masse come il pastore guida il gregge.

La verità è che, sotto qualunque forma, abbiamo paura della morte. La medicina occidentale, frutto di questa società fondamentalmente materialista e de-sacralizzata, ha paura della morte, per questo usa continuamente la metafora bellica per parlare della malattia: “combattere”, “distruggere”, “debellare” il nemico, anzi, il Nemico, perché è la Morte che va sconfitta. Notevole che gli studi di psicologia sulla paura della morte abbiano mostrato come i medici più spaventati dalla morte siano anche i più propensi a trattamenti eroici per “salvare” i loro pazienti ad ogni costo. L’idea che il corpo abbia una sua saggezza evolutiva e risorse di guarigione e che la disposizione d’animo, la dieta, lo stile di vita sano, l’igiene dei pensieri e dell’ambiente possano semplicemente mantenere la salute a lungo, a molti sembra poco “scientifica”, almeno non tanto quanto l’arma ultimativa nella “guerra” senza fine, che sia il vaccino o la medicina salvifica, rigorosamente calate dall’alto dell’Autorità scientifica.

La consapevolezza, poi, che la morte possa essere benigna, che in realtà ci accompagni ogni giorno, a livello cellulare, mentale e spirituale, in tutti i cambiamenti quotidiani, che sono tante piccole morti, tanti distacchi dal passato, che solo accettando profondamente la nostra morte noi possiamo dare un senso compiuto alla vita e vivere felici, che morire bene è cosa profondamente saggia, è lontanissima dai pensieri di molte persone. Cotidie morimur diceva il filosofo Seneca: moriamo ogni giorno, e la lezione che le nostre piccole morti quotidiane dovrebbero lasciarci è che stiamo bene quando non ci identifichiamo troppo con i nostri problemi, con il nostro ego, con le preoccupazioni collettive, con la sofferenza senza tregua dell’umanità intera; quando riusciamo a sentire che c’è nel profondo di noi stessi un’essenza divina, una luce interiore che trascende le vicende del quotidiano e perfino la morte, quando siamo capaci di neutralizzare l’unico, insidiosissimo virus che ci distrugge, che è la paura stessa. La paura non si combatte con le azioni temerarie, ma si trasforma con l’amore per noi stessi e per gli altri. Chi ha paura non ama, o meglio, chi non riesce a prendere le distanze dalla sua paura (la paura è umana, e anche utile, a certe condizioni), non riesce ad amare, perché il suo cuore resta chiuso alla gioia. La paura è una saracinesca che ci imprigiona in una cella senza finestre e ci fa dimenticare chi siamo veramente. Ci muriamo vivi per paura di morire, così rinunciamo a vivere. Ma di questa cella le chiavi sono in nostro possesso.

Non siamo pecore. Abbiamo una natura spirituale, fatta di luce, di amore e di potere. Se ci lasciamo dominare dalla paura e da chi la usa per dominarci, stiamo rinunciando alla nostra responsabilità. Dobbiamo smettere di pensare di essere vittime del destino, fuscelli in balìa degli eventi. Molto di ciò che succede dipende anche da noi. Quanto ci prendiamo cura della nostra salute, invece di delegare? Che cosa mangiamo, come trattiamo il nostro corpo? Quanto ci rendiamo conto delle conseguenze delle nostre azioni, dei nostri pensieri, delle nostre parole? Quanto facciamo per dare senso alla vita? Quanto ci impegniamo per imparare e diventare più consapevoli? Quanta energia dedichiamo a migliorare il mondo in cui viviamo? Quanto ci spendiamo per opporci a ciò che è ingiusto? Quanto amiamo noi stessi (soprattutto noi stessi, completamente, senza riserve!) e gli altri? Quanto ci prendiamo la responsabilità del nostro contributo alla Coscienza collettiva? Quanto siamo capaci di nutrire e proteggere la gioia che è in noi, senza lasciarcela portare via dagli eventi?

L’epidemia di Coronavirus ci ha mostrato, come spesso accade nell’emergenza, il peggio e il meglio delle persone. Abbiamo visto azioni ripugnanti e inqualificabili e gesti meravigliosi di solidarietà e di dedizione: chi sceglie di amare, ha deciso di lasciare andare la paura e di agire responsabilmente. Abbiamo constatato i danni catastrofici di un intero sistema economico fatto di privatizzazioni e di gestione oligarchica e predatoria del bene pubblico, ma assistiamo anche al rinascere di iniziative, proposte, voglia di ricostruire una realtà diversa e migliore. Abbiamo dovuto misurarci con limitazioni impreviste, ma abbiamo anche avuto più tempo per riflettere e per osservare la follia dei nostri ritmi di vita. Il dramma di chi muore da solo per la malattia e di chi ha perso i mezzi di sussistenza perché bloccato in casa ci ha reso manifesti la disumanità e l’ingiustizia del sistema sociale in cui viviamo. La crisi planetaria ci ha messi di fronte ad un bivio: o riprenderci la nostra sovranità, ovvero la nostra responsabilità di decidere e la nostra consapevolezza di cittadini adulti e autonomi, oppure accettare di fare le pecore senza remissione, paurose e tremanti, dipendenti dall’Autorità sempre più dispotica che decide per noi. Non mancano le forze che spingono in questa seconda direzione e che ci hanno pilotati fino ad ora. Ma sta a noi pensare una realtà alternativa a questa e non perdere l’occasione per realizzarla. Ci servono la creatività, l’ispirazione e la morbidezza del Femminile spirituale. Non dobbiamo combattere, ma trasformare. Come diceva Einstein, “non si possono risolvere i problemi pensando nello stesso modo con cui si è giunti a crearli”.

Pubblicato su Rebis il 6 aprile 2020.