Coraggio di vivere o paura di morire?

di Benedetto Tangocci, Flaminia Elettra De Rossi, Marina Thellung, Rosanna Camerlingo, Patrizia Scanu, Marina Bonadeni

Chi ha paura muore ogni giorno,
chi non ha paura muore una volta sola.”

Paolo Borsellino

L

a citazione del grande magistrato italiano (parafrasi di un passo del Giulio Cesare di Shakespeare) racchiude in due poetiche affermazioni l’alternativa tra il lasciarsi sopraffare dalla paura e il riuscire superarne il potere paralizzante. Naturalmente la morte quotidiana si colloca su un piano diverso rispetto alla morte fisica, nondimeno il valore ad essa attribuito non è sentito affatto come inferiore. Molte altre citazioni avrebbero potuto aprire questo articolo con analoga efficacia, citazioni tratte dalla narrativa, dal cinema o da grandi biografie, come in questo caso. Ma che cosa ha da dire a proposito la psicologia, che cosa sappiamo sulla qualità della vita conseguente al vivere nella paura oppure – nelle parole di Amleto – “to take arms against a sea of troubles, and by opposing end them”?

La psicologia ha molto da dire, e molto ha detto, sulla paura, sullo stato ansiogeno conseguente, sulle fobie e sulle conseguenze a lungo termine di un evento traumatico (PTSD). Sappiamo che la paura detiene un’importante funzione evolutiva, ci allerta rispetto a un pericolo e attiva rapidamente le risorse per fronteggiarlo immediatamente (fight, flight, or freeze). Secondo il noto neurobiologo Joseph LeDoux (1996), uno stimolo percettivo (ad esempio una canna da irrigazione in giardino) raggiunge il talamo che smista il segnale “grezzo” sia all’amigdala che alla corteccia sensoria. La prima via è rapida, ma imprecisa e se lo stimolo può sembrare pericoloso (ad esempio un serpente) mette immediatamente in allerta, suscitando una rapida risposta. In alcuni casi una frazione di secondo può fare la differenza. La seconda via è più lenta, ma elabora accuratamente il segnale, e riconoscendolo correttamente (no, è solo una canna da irrigazione), può interrompere lo stato di allerta, se riconosciuto come improprio. La paura ci è quindi necessaria in limitate e specifiche situazioni. Sappiamo tuttavia anche che se l’attivazione indotta dalla paura permane a lungo termine, o diviene cronica, non solo non è più adattiva, ma comporta numerosi effetti negativi, sia psicologici che somatici. La risposta emotiva è biologicamente funzionale unicamente di fronte ad un pericolo immediato, urgente e di breve durata.

Nondimeno la branca della psicologia che si occupa delle strategie di persuasione raccomanda come altamente funzionale per favorire l’adesione a comportamenti socialmente desiderati, il ricorso a tecniche che sfruttano l’induzione alla paura, con il conseguente suggerimento di adottare il comportamento desiderato per evitare le spaventose conseguenze. Si tratta di tecniche la cui funzionalità allo scopo stabilito è stata dimostrata, ma che dire dei possibili effetti collaterali sulla popolazione e, soprattutto, della loro valenza etica?

Quanto invece alla capacità di gestire e superare la paura, che comunemente chiamiamo “coraggio”, che cosa ne sappiamo? Il termine è facilmente comprensibile a tutti, sebbene come per molte parole di uso comune non sia così facile offrirne una definizione. Già nel Lachete, Platone fa chiedere a Socrate, “Prova dunque a dire cos’è il coraggio?”, iniziando così la ricerca di una definizione che il dialogo non arriva a formulare, sebbene senta come essenziale, poiché solo “dopo potremo indagare come darlo ai giovani, per quanto possibile, attraverso l’esercizio e lo studio”. Tuttavia una definizione sufficientemente condivisa (che sarà argomento del prossimo paragrafo) dovrà attendere ancora molti secoli. Malgrado ciò il coraggio è stato centrale in molte influenti visioni: viene considerato da Platone nella Repubblica come caratteristica essenziale della classe dei guardiani; da Aristotele nell’Etica Nicomachea come prima delle virtù etiche; e successivamente, col nome di Fortezza (Fortitudo), annoverato tra le virtù cardinali da Sant’Ambrogio, da Sant’Agostino e da Tommaso d’Aquino.

Il coraggio nella psicologia

Solo recentemente la psicologia si è occupata di coraggio, soprattutto grazie ad esponenti della cosiddetta “Psicologia Positiva”. Come ai tempi di Socrate, si è riproposta così la questione di trovare una definizione del costrutto. Tra le molte, tra le più adottate, e ad avviso di chi scrive tra le più convincenti definizioni di coraggio, troviamo: “(a) a willful, intentional act, (b) executed after mindful deliberation, (c) involving objective substantial risk to the actor, (d) primarily motivated to bring about a noble good or worthy end, (e) despite, perhaps, the presence of the emotion of fear.” (Rate et al., 2007, 95).

Riguardo ai punti (a) e (b), altri autori (Pury & Starkey, 2010) distinguono tra una dimensione di stato, che come nella definizione appena riportata giunge al coraggio attraverso un processo consapevole, e una dimensione di tratto di personalità, più costante e inconsapevole. Tuttavia, e sebbene indubbiamente esistano persone più inclini ad atti di coraggio, il costrutto così definito è risultato vago e poco utile alla ricerca, che ha perciò prevalentemente preferito guardare al coraggio come a un processo.

Relativamente al punto (e), Rachman (2010) afferma che “approaching a potentially dangerous situation in the absence of subjective and physiological indices of fear is regarded as fearlessness, not courage.” (ivi, 93). Tuttavia la mancanza di paura può essere congenita; può essere pura incoscienza; ma può anche essere conquistata tramite ripetuti atti di coraggio in situazioni analoghe. L‘autore, studiando professionalità esposte a forti rischi, conclude che “yes, it is possible for people to attain the noble quality of courage by study and training” (ivi, 105) e che “the successful practice of courageous behavior leads to a decrease in subjective fear and finally to a state of fearlessness.” (ivi, 106). Pertanto la precisazione di Rate che la paura può essere, o meno, presente, appare preferibile ad altre definizioni che ne sottolineano invece la necessaria presenza.

Più delicata è la parte (d) della precedente definizione. Infatti la percezione di “noble good or worthy end” è altamente soggettiva e talvolta opinabile. A titolo di esempio:

running into a burning building to save a child is courageous; running into a burning building to save a favorite computer is probably not. What about running into a burning building to save a pet? The appraised courageousness of this action probably depends on the observer’s opinion about pets. (Pury & Starkey, 2010, 83)

La percezione di un atto di coraggio o di codardia può tuttavia ulteriormente essere complicata. Supponiamo, ad esempio, di avere ricevuto la diagnosi di un grave tumore ad uno stato avanzato e il suggerimento di intraprendere un percorso chemioterapico che potrebbe ritardare il decesso. Immaginiamo uno scenario in cui dover scegliere tra la prospettiva di un anno di vita in cui dover convivere con frequenti ospedalizzazioni e forti nausee o quella di pochi mesi trascorsi nel luogo che più ci aggrada, liberi da effetti collaterali. Quale scelta sarebbe coraggiosa e quale no? La risposta è inevitabilmente soggettiva. Probabilmente un materialista riterrebbe codardia sottrarsi alle terapie e coraggio affrontarle. Altri tuttavia potrebbero ritenere codardia tentare di prolungare la mera esistenza fisica a discapito della qualità della vita da loro ritenuta prioritaria.

Rimanendo strettamente legati alla definizione di coraggio avrebbero entrambi ragione, dal loro punto di vista. Come nell’esempio dell’edificio in fiamme, siamo tutti facilmente concordi che rischiare la vita per salvare un bambino sia un atto coraggioso, come pure che rischiarla per salvare un computer sia folle; ma rischiarla per salvare un animale è coraggioso o folle? E non farlo è saggio o vile? Poiché la risposta è soggettiva, lo è inevitabilmente anche la percezione di chi agisce, i cui vissuti soggettivi di coraggio o di codardia sono riconoscibili come tali unicamente da chi ne condivide i valori. Se dall’esterno è quindi sempre possibile il fraintendimento del vissuto soggettivo, per l’individuo è tuttavia più semplice distinguere tra scelte effettuate seguendo i suggerimenti della paura o scelte compiute per impulso del coraggio. Lasciamo quindi all’individuo il compito di giudicare se stesso con sincerità e passiamo a valutare gli esiti del vivere consigliati dalla paura o dal coraggio.

Conseguenze della paura o del coraggio

Come già scritto nell’introduzione, la paura è un’emozione necessaria alla rapida risposta in una situazione di pericolo immediato, ma altamente dannosa se prolungata nel tempo. Sulle conseguenze, sia psicologiche che fisiche, dello stress provocato da stati di paura intensi e/o duraturi sono stati scritti migliaia di libri e di articoli. Tra i possibili esiti psicologici troviamo lo sviluppo di depressioni, ansie, fobie, attacchi di panico, disturbo da stress post traumatico; e per ognuno di questi aspetti esiste una nutrita letteratura a riguardo. Quanto ai possibili esiti somatici, occorre innanzitutto osservare che, sebbene l’ipotesi che uno stato emotivo possa influenzare dinamiche fisiologiche sia stata osteggiata per anni, e non sia ancora stata pienamente recepita dai medici meno aggiornati, la ricerca ne ha chiaramente dimostrato la validità oramai da decenni. Con la nascita della PNEI (psiconeuroendocrinoimmunologia), disciplina che indaga le interazioni tra psiche, sistema nervoso, endocrino e immunitario, sono arrivate le prime verifiche sperimentali, e ad oggi si possono considerare appurati almeno due principali percorsi biologici tra il vissuto psicologico e la risposta somatica (Ader, 2006): l’asse HPA (hypothalamic–pituitary-adrenal – ipotalamo-ipofisi-corticale del surrene), che stimola la produzione di cortisolo da parte della corticale del surrene; ed il percorso SAM (sympathetic-adrenal medullary – simpatico-adrenomidollare) che lega il locus coeruleus all’attività del sistema neurovegetativo simpatico e, tramite essa, alla produzione di catecolamine da parte della midollare del surrene (Kern, Rohleder, Eisenhofer, Lange, & Ziemssen, 2014). Stati particolarmente intensi o prolungati di paura comportano le sopracitate reazioni fisiologiche da stress e col tempo l’iperattivazione della produzione ormonale può portare a patologie anche gravi.

Lo studio degli effetti del coraggio sulla qualità della vita è invece ancora agli inizi e consta di pochi studi. Tra questi si annoverano principalmente quelli condotti nell’ambito dell’applicazione della Psicologia Positiva al mondo del lavoro, molti dei quali concordano nel concludere che “courage was found to mediate the relationship between psychological capital and flourishing [letteralmente “fiorire”: prosperare]” (Santisi et al., 2020, 9) e che “this is probably linked to the fact that courage was intrinsically constituted and aimed at a noble purpose, and this characteristic has a powerful effect on flourishing” (ibidem). Una ricerca sulla relazione tra coraggio, benessere psicologico e sintomi somatici nella popolazione generale (Keller, 2016) rileva che “higher courage scores were found to predict lower somatic symptom scores” (ivi, 62) e che “courage was shown to significantly predict PWB [Psychological Well-being]” (ivi, 64). Non ci risultano studi psicologici più approfonditi sul tema. Ciò nonostante, poiché il coraggio è, per definizione, un atto intenzionale che comporta per chi lo esegue un rischio oggettivo e sostanziale, implica necessariamente la capacità di gestione della paura, se presente, e pertanto sembra lecito affermare che il coraggio sia in grado di proteggere dai rischi sopra esposti connessi con uno stato di paura particolarmente intenso o prolungato. Infine, per quanto non ci risulta siano stati studiati gli effetti derivanti dal vivere – o anche solo dal leggere – sensazioni analoghe a quelle trasmesse dalla frase in epigrafe a questo testo, credo, e spero, che ognuno abbia provato almeno una volta in vita sua l’emozione correlata e sia in grado di ricordarne la forza pervasiva che ne deriva, anche senza doverne leggere in una ricerca scientifica.

Sinergetica, Movimento di Libera Psicologia

Nel particolare momento storico legato alla primavera/estate 2020, in Italia, un gruppo di colleghi psicologi e psichiatri ha sentito il bisogno di sottoscrivere un comunicato di allarme (https://comunicatopsi.org/) relativo gli aspetti psicologici della gestione dell’emergenza in atto. Successivamente alcuni di noi hanno ritenuto necessario dare vita ad un gruppo che coordinasse attivamente le iniziative scaturite da tale analisi, che si è dato il nome di Sinergetica, Movimento di Libera Psicologia. L’alternativa tra lasciarsi sopraffare dalla paura o coltivare il coraggio è tematica da noi sentita come centrale. Riteniamo che oggi più che mai il coraggio sia indispensabile per recuperare la serenità e la fiducia in sé e negli altri.

Per la sua etimologia “coraggio” rimanda al cuore. Solo chi ama ha coraggio. Per questo l’amore è l’antidoto alla paura. “Coraggio!” è anche una comune esortazione a proseguire nonostante le difficoltà, i piccoli timori o i grandi sconforti, a confrontarsi con i propri limiti e a crescere ogni giorno di più, a rincuorarsi. Per fiorire infatti occorre innanzitutto trovare il cuore di uscire dalla propria cosiddetta “comfort zone”, dove le comodità e le sicurezze rischiano di essere al contempo mura via via sempre più soffocanti. A volte a tal punto che per tenere fuori i pericoli ci troviamo a respirare più anidride carbonica che ossigeno, come avviene indossando le mascherine. Rinunciare ai più elementari rapporti umani sembra a molti indispensabile per proteggersi, forse perché come scriveva Michele Lauro (2016) “il marketing della paura ha un ufficio stampa molto efficiente: serve per aumentare il consenso, esercitare il controllo, assumere il potere”, e così troppo facilmente rischia di farci dimenticare che “il coraggio non è l’assenza di paura, ma piuttosto il giudizio che c’è qualcosa di più importante della paura” (frase attribuita a Ambrose Redmoon).

Poiché il coraggio è avere cuore, ma non solo: il coraggio è lanciare il cuore oltre l’ostacolo, quando non si sa cosa ci sarà dopo. Il coraggio sarà dire “No!” quando vorranno zittire la nostra umanità; quando vorranno far sparire la coscienza come un ornamento inutile. Il coraggio sarà pagare un prezzo, se ci sarà da pagarlo, per un mondo migliore che non vedremo. Il coraggio è quello di Antigone che decide di dare sepoltura al cadavere del fratello Polinice contro la volontà del re di Tebe che l’ha vietata con un decreto. Per la sua disobbedienza morirà murata viva in una grotta, ma per Antigone la legge divina è superiore alle leggi umane. Oggi la chiameremmo “disobbedienza civile”, dal titolo del celebre saggio di Herry David Thoreau che ha ispirato, tra gli altri, il Mahatma Gandhi, Martin Luther King, o Nelson Mandela. A ben vedere si potrebbe affermare che ogni conquista civile, dall’abolizione della schiavitù al suffragio universale, è in debito verso individui che hanno avuto il coraggio di sfidare leggi umane accettate dai più, ma da loro ritenute inique in virtù di principi considerati superiori, divini o naturali che siano.

Inoltre, accanto al coraggio dei grandi leader che hanno fatto la storia e combattuto per i diritti civili, ci sono forme di coraggio “più silenziose”, meno evidenti, ma altrettanto importanti. Il coraggio di non arrendersi e continuare a sperare. Il coraggio di non fermarsi alla superficie e di approfondire tutto, accettando in tal modo di cambiare anche se stessi. Il coraggio di affrontare la solitudine di coloro che percorrono territori ancora inesplorati. Il coraggio di chi addomestica la paura accogliendo il prossimo con amore. Il coraggio di chi sente la responsabilità verso i propri ideali, verso i propri figli e verso il mondo che un domani lasceremo loro. Non vogliamo risvegliarci un giorno e scoprire che ci è mancato il coraggio necessario quando era ancora possibile fare tutto ciò, poiché crediamo che – come scrisse il poeta Robert Frost in Servant to Servants – “the best way out is always through”. Oggi occorre infatti soprattutto il coraggio della consapevolezza che ripetere a se stessi il mantra “andrà tutto bene” è solo una forma di rassicurazione, mentre la posta in gioco è proprio la qualità della vita, più importante della stessa sopravvivenza. Questa consapevolezza è necessaria giacché – come nel nome della celebre acquaforte di Francisco Goya – “il sonno della ragione genera mostri”, e questo non è il momento di obbedire e “restare a casa”, bensì quello di svegliarsi, attivarsi e riunirsi.

Conclusioni

Gli studi sul coraggio come costrutto psicologico sono ancora agli inizi e ci auguriamo di avere contribuito a fare il punto della situazione. Tuttavia, il coraggio è virtù morale da molti secoli, centrale e trasversale alla religione, all’arte, alla letteratura e al sentire comune. Coltivarlo protegge dai pericoli legati al vivere prolungati stati di paura e migliora la qualità della vita. Purtroppo invece, come afferma in una recente intervista (Amorosi, 2020) Stefano Fais, dirigente di ricerca dell’Istituto Superiore di Sanità, “stanno gestendo il Coronavirus con la paura. Ma la paura è una malattia che indebolisce e rende più fragili. Così masse di persone vengono rese facilmente prede proprio dei virus”. Il distanziamento sociale e il timore del prossimo percepito come possibile untore comportano pericolose conseguenze psichiche e psicosomatiche che nel migliore dei casi sono state completamente ignorate.

Oramai da vari decenni sappiamo che il benessere psicofisico dipende in gran parte dalla qualità delle relazioni interpersonali. Innumerevoli studi, svolti da autori di varie discipline, lo hanno ampiamente dimostrato e interi orientamenti psicoterapeutici, come la Psicanalisi Relazionale o la Psicoterapia Interpersonale, basano l’efficacia dei loro interventi su questa consapevolezza. Non riteniamo pertanto necessario approfondire questa conclamata evidenza, riguardo la quale rimandiamo all’amplissima letteratura esistente. Peraltro, che la qualità delle relazioni sia parte imprescindibile di quella che chiamiamo “qualità della vita”, è risaputo anche in ambiti non psicologici, e da ben prima che la psicologia lo abbia dimostrato. Azioni un tempo quotidiane, come sorridere a viso scoperto, stringersi la mano, abbracciarsi o accogliere l’altro a una distanza di prossimità, sono socialmente, evolutivamente e psichicamente così importanti da rendere necessario che gli effetti della loro soppressione siano dettagliatamente analizzati in un prossimo lavoro.

Qui desideriamo concludere evocando l’immagine del celebre dipinto La DanseII di Henri Matisse, e riportando il commento che l’opera ha suscitato in Derio Olivero (2019), vescovo di Pinerolo: “L’essenza della vita sta nel ‘tenerci per mano’, sta nel creare un cerchio. Tutto il resto scompare. Sotto questo cielo, sulla nostra terra, la cosa più essenziale è riuscire a prenderci per mano.” (ivi, p. 18). Non sappiamo se in questi mesi il vescovo abbia mutato opinione o se adesso riscriverebbe la stessa frase. Sappiamo però che per noi, oggi, è quanto mai urgente riscoprire questa dimensione e soppesare con il necessario coraggio che cosa stiamo perdendo in cambio dell’illusione della sicurezza. Per non correre il rischio di cui ci ha avvertiti Benjamin Franklin (1755): “Those who would give up essential Liberty, to purchase a little temporary Safety, deserve neither Liberty nor Safety”. Di questo coraggio abbiamo urgente bisogno, per la nostra salute individuale, per quella della società in cui viviamo e per quella della società che lasceremo ai nostri figli.

Riferimenti Bibliografici

Ader, R. (Ed.). (2006). Psychoneuroimmunology, Fourth Edition (4 edition). Boston: Elsevier/Academic Press.

Amorosi, A. (2020). Emergenza, Fais: “Prolungarla? Buffonata. Governare con la paura è pericoloso”. Affaritaliani.it. https://www.affaritaliani.it/cronache/prolungare-l-emergenza-buffonate-governano-con-la-paura-ed-pericoloso-687736.html

Franklin, B. (1755). Pennsylvania Assembly: Reply to the Governor, 11 November 1755. Printed in: Votes and Proceedings of the House of Representatives, 1755–1756 (1756). Philadelphia, pp. 19–21. https://founders.archives.gov/documents/Franklin/01-06-02-0107#BNFN-01-06-02-0107-fn-0005

Keller, C., J. (2016). Courage, Psychological Well-being, and Somatic Symptoms. Clinical Psychology Dissertations. 17. https://digitalcommons.spu.edu/cpy_etd/17

Kern, S., Rohleder, N., Eisenhofer, G., Lange, J., & Ziemssen, T. (2014). Time matters – Acute stress response and glucocorticoid sensitivity in early multiple sclerosis. Brain, Behavior, and Immunity, 41, 82–89.

Lauro, M. (2016, 15 marzo). Gabriele Romagnoli, ‘Coraggio!’ – la recensione. Panorama. https://www.panorama.it/cultura/gabriele-romagnoli-coraggio-la-recensione

LeDoux, J. E. (1996). The Emotional Brain. New York: Simon and Schuster.

Olivero, D. (2019). Vuoi un caffè?. Lettera pastorale.
https://www.diocesipinerolo.it/wp-content/uploads/2020/03/Lettera-Mons.-Olivero-2019.pdf

Pury, C. L., S. & Starkey, C. B. (2010). Is courage an accolade or a process? A fundamental question for courage research. In. Pury C., L., S. & Lopez, S., J. (Eds.), The psychology of courage: Modern research on an ancient virtue (pp. 67–87). Washington: American Psychological Association.

Rachman, S., j. (2010) Courage: A Psychological Perspective. In. Pury C., L., S. & Lopez, S., J. (Eds.), The psychology of courage: Modern research on an ancient virtue (pp. 91–107). Washington: American Psychological Association.

Rate, C., Clarke, J., Lindsay, D., & Sternberg, R. (2007). Implicit theories of courage. The Journal of Positive Psychology. 2. 80-98.

Santisi, G., Lodi, E., Magnano, P., Zarbo, R., & Zammitti, A. (2020). Relationship between Psychological Capital and Quality of Life: The Role of Courage. Sustainability, 12(13), 5238.


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Articolo pubblicato sulla rivista di psicologia PiEsse il 20 agosto 2020.

Manipolare con la paura e il conformismo. Il lato oscuro della psicologia e della sociologia

Anche se se ne parla poco, esiste un lato oscuro della psicologia e della sociologia. La conoscenza della mente e i processi sociali può essere utilizzata infatti non solo per migliorare le persone e i contesti in cui vivono, ma anche per manipolare le une e gli altri in vista di scopi egoistici non dichiarati, di tipo politico, commerciale, militare, economico, diplomatico.

Da circa un secolo, da quando cioè lo spregiudicato nipote di Freud, Edward Bernays, inaugurò gli studi sulle tecniche di propaganda e inventò lo spin doctoring – ovvero le strategie di comunicazione messe in atto dai sistemi politici per presentarsi all’opinione pubblica e per promuovere idee, persone, programmi e scelte – enti governativi, servizi segreti e militari, aziende, potentati economico-finanziari hanno investito enormi risorse nella ricerca sul comportamento umano al fine di poterlo controllare e manipolare.

La diffusione massiccia dei mass media ha enormemente facilitato il compito di costruire scenari artificiali attraverso un uso calcolato e deliberatamente non veritiero dell’informazione e attraverso le potenzialità suggestive offerte dalle immagini. Furono i regimi totalitari del ‘900 a utilizzare in modo sistematico le tecniche di manipolazione del consenso, mobilitando enormi masse di persone attraverso un poderoso apparato ideologico e simbolico attentamente studiato.

Propaganda politica e pubblicità commerciale condividono sostanzialmente le stesse tecniche di marketing, con la sola differenza che il politico deve nascondere i fini economici e affaristici che muovono le sue scelte e dare l’illusione di avere una visione d’insieme della società. Entrambe sfruttano alcune caratteristiche strutturali della mente umana, quali la razionalità limitata (ovvero la tendenza a seguire scorciatoie poco aderenti alla logica nei ragionamenti, chiamate “euristiche” e la tendenza a distorsioni sistematiche nei processi di percezione e analisi della realtà, i cosiddetti “biases”), la presenza di processi mentali inconsci, la scarsa consapevolezza emozionale, insieme alla tendenza ad elaborare gli stimoli più per via emozionale che razionale, la conformità alle norme del gruppo di appartenenza, l’inclinazione all’obbedienza all’autorità, la suggestionabilità, l’ignoranza dei processi mentali, del linguaggio dei media e delle tecniche comportamentali, che sono appannaggio di pochi individui.

Agli occhi di uno spin doctor, a cui spesso il politico si rivolge per consulenza, il pubblico da manovrare è una massa di soggetti inconsapevoli, irrazionali, poco o per nulla padroni dei propri processi emotivi e mentali, psicologicamente fragili e ignari dei propri bisogni profondi, facilmente suggestionabili, stolidamente fiduciosi nell’autorità, sulla quale proiettano un’immagine genitoriale rassicurante (il “buon padre di famiglia”). Un gregge, insomma, che attende di essere guidato. «La folla è un gregge che non può fare a meno di un padrone», scriveva a fine ‘800 Gustave Le Bon, nel suo saggio assai noto sulla psicologia delle folle. Nella folla, come hanno messo in luce studi più recenti di psicologia sociale, quali quelli di Philip Zimbardo, l’individuo tende a perdere il senso dell’individualità e della responsabilità personale e ad entrare in un pericoloso “stato di agente”, nel quale le sue azioni cessano di essere controllate dalla consapevolezza razionale, facendo di lui uno strumento passivo di una volontà estranea, proveniente dall’autorità o dal gruppo.

La conoscenza dei processi psicologici e sociali è indispensabile per quei ristretti gruppi di potere che progettano interventi di ingegneria sociale, ovvero di modificazioni lente o traumatiche degli assetti politici, economici e culturali di un Paese o dell’intero pianeta, come è avvenuto con quel gigantesco esperimento pluridecennale che è la globalizzazione in chiave neoliberista e come sembra stia avvenendo adesso, con la privatizzazione della sanità mondiale e con i risvolti autoritari e ipertecnologici della cosiddetta “pandemia”. Potremmo dire anzi che la presenza delle tecniche di manipolazione psicologica testimoniano di per sé l’esistenza di un progetto di ingegneria sociale che ne diriga gli esiti.

Negli ultimi dieci anni almeno, l’uso di tecniche suggestive e comportamentali da parte dei governi che si definiscono “democratici” è diventato la regola nella gestione del consenso, ben al di là delle classiche leve del controllo politico, che sono le leggi, i regolamenti, le tasse, l’istruzione. E durante la crisi da Coronavirus abbiamo assistito all’utilizzo massivo dell’intero repertorio degli strumenti di manipolazione di massa, dietro al cui dispiegamento si intuisce una regia piuttosto scaltra e sovranazionale.

Non si tratta solo di un sospetto. Poche settimane fa, è emerso un documento (non l’unico, ovviamente, ma significativo) elaborato nel mese di marzo 2020, per iniziativa del governo britannico, da un gruppo di funzionari e consulenti scientifici coordinati dal Scientific Advisory Group for Emergencies (SAGE). Il gruppo, convocato per la prima volta nel 2009/10 in occasione della pandemia di influenza suina, è stato riconvocato nel febbraio 2020 con il nome di Scientific Pandemic Influenza group on Behaviour, or SPI-B. Il suo compito non è di fornire competenze mediche in merito alla pandemia di Covid-19, ma di dare indicazioni sul modo in cui aiutare i cittadini ad aderire alle misure imposte dal governo. Il documento prodotto dal gruppo si intitola Options for increasing adherence to social distancing measures. Con una modalità piuttosto aggressiva e dirigistica, individua nove strategie per conseguire l’obiettivo dell’obbedienza: Istruzione, Persuasione, Incentivazione, Coercizione, Abilitazione, Formazione, Restrizione, Ristrutturazione ambientale, Modellamento.

Scopriamo così che “il livello percepito di minaccia personale deve essere accresciuto fra coloro che sono acquiescenti, usando messaggi di forte impatto emozionale” e che “per essere efficace, questo deve anche rinforzare le persone rendendo chiare le azioni che esse possono compiere per ridurre la minaccia”: insomma, la paura indotta da messaggi terrorizzanti deve accompagnarsi a chiare direttive di comportamento al fine di spingere le persone ad accettare la quarantena di massa e le altre misure imposte dall’alto, come il distanziamento sociale. Nella mente degli esperti non ci sono dunque cittadini che decidono, ma soggetti passivi che si adeguano agli ordini, manipolati attraverso la paura. Una persona spaventata è più facilmente condizionabile e poco reattiva, perché le sue difese sono abbassate. Lo sanno i tiranni di ogni epoca. Ma per ottenere l’effetto, si deve usare una comunicazione ingannevole e intenzionalmente strumentale. Il fine è infatti l’acquiescenza all’autorità, non l’interesse dei cittadini, liberamente determinato.

Inoltre,

la disapprovazione sociale della propria comunità può giocare un ruolo importante nel prevenire il comportamento antisociale o nello scoraggiare la mancata esibizione di un comportamento prosociale. Tuttavia, questo fattore va gestito con attenzione, onde evitare la vittimizzazione, la creazione di un capro espiatorio e di una tendenza critica diretta all’oggetto sbagliato. Deve essere accompagnato da messaggi chiari e dalla promozione di una chiara identità collettiva. Si deve prendere in considerazione l’uso della disapprovazione sociale, ma con una forte attenzione alle conseguenze negative indesiderate.

Gli esperti del SPI-B stanno consigliando insomma di forzare l’adeguamento alle norme sfruttando il conformismo del gruppo che spinge la maggioranza conforme a punire i trasgressori e a farne il bersaglio della loro aggressività. Il controllo sociale viene così affidato direttamente ai cittadini, aizzando gli uni contro gli altri. Suonano alquanto pelose le preoccupazioni indicate sull’effetto inevitabile di criminalizzazione del dissenso.

Per questi e per gli altri obiettivi, lo strumento principale indicato dagli estensori sono i mass media. Lungi dall’essere visti come i cani da guardia della democrazia, al servizio del popolo sovrano, in questo documento e in altri simili, elaborati da diversi governi e da organismi sovranazionali negli ultimi anni, i mass media tendono ad assumere la funzione sempre più evidente di meri strumenti di propaganda e di influenzamento al servizio del potere. Rafforza questo quadro inquietante l’istituzione di Task Force contro le cosiddette fake news, come viene definita l’informazione non ufficiale che mette in dubbio la narrazione menzognera delle autorità, e il massiccio ricorso al debunking, ovvero la minimizzazione e discreditamento dell’informazione critica e di coloro che la veicolano, connotata come malata e paranoide e spesso associata con disinvolta mistificazione a credenze chiaramente infondate e assurde (come il terrapiattismo).

Gli strumenti messi in campo comprendono l’uso suggestivo della PNL e dell’ipnosi conversazionale; la riscrittura di eventi, biografie, notizie; la menzogna ripetuta, fatta di notizie e immagini false, di correlazioni illusorie fra eventi, di distorsione dell’importanza di un evento, di silenzio su circostanze che farebbero interpretare diversamente un evento, di interpretazioni false di un evento, di framing, ovvero di riformulazione dell’informazione in modo da influenzare la percezione dei fatti e da fabbricare credenze; l’uso sistematico delle fallacie argomentative; l’uso ingannevole del linguaggio; l’imposizione di norme assurde e contraddittorie, con l’effetto si provocare impotenza appresa e indurre rassegnazione; l’uso manipolativo delle emozioni come leva di persuasione per aggirare l’analisi razionale; il ricatto più o meno latente e l’intimidazione; il ricorso all’autorità scientifica o all’apparenza di scientificità per validare scelte politiche discutibili; l’utilizzo cinico del diffuso clima di terrore e sgomento prodotto dai media come leva per introdurre modifiche permanenti e inaccettabili nella vita dei cittadini e nella struttura sociale, nella più pura tradizione della dottrina dello shock (mai sprecare una crisi, dice pure Mario Monti). Il risultato è una massiccia modificazione percettiva degli eventi e un completo avvelenamento del pozzo del dibattito pubblico, aggravato dalle gravissime e previste conseguenze psicologiche dell’isolamento, della catastrofe economica, del clima di delazione, di arbitrio e di illegalità e dalla sospensione di tutti i diritti fondamentali, come nei sistemi totalitari.

Per questo la crisi non deve finire e la normalità deve essere sospesa indefinitamente. Non c’è razionalmente alcuna ragione per continuare questa tragica rappresentazione, che nei suoi eccessi assume contorni grotteschi e assurdi. Non si getta sul lastrico una nazione per una malattia, per quanto grave, fra le tante assai più gravi che affliggono la popolazione. Non si producono milioni di depressi, ipocondriaci, ossessivi-compulsivi, ansiosi e isolati o di morti per tumore, infarto e altre patologie, indotte dalla mancanza di cure, per preservare alcune categorie a rischio da un virus a bassa letalità. Non è la salute in gioco qui, ma la libertà.

Alle origini del comportamentismo, lo psicologo Burrhus Skinner delineò, nel romanzo Walden two (1948), un’utopica società felice governata da uno psicologo comportamentista, che da despota illuminato modella il comportamento dei cittadini con le tecniche di condizionamento, per ottenere armonia sociale e prosperità. Questo inquietante sogno tecnocratico di controllo paternalistico del comportamento, che manipola dolcemente e insensibilmente soggetti infantilizzati e privi di autonomia decisionale per fini stabiliti dall’alto, è più che mai vivo oggi ed ha un nome: nudging, ovvero induzione di comportamenti ritenuti buoni dall’autorità con modalità non coercitive, utilizzando le tecniche comportamentali. Che cosa abbia a che fare con la democrazia, l’autodeterminazione e la trasparenza risulta davvero difficile stabilirlo.

Articolo pubblicato su Sovranità popolare, n° 5, giugno 2020.

Trasformare la paura di morire per rinascere

Nella nostra memoria storica, i tre principali flagelli dell’umanità sono la guerra, la fame e la peste. Ce li portiamo dentro da generazioni innumerevoli, come fantasmi carichi di minacciosa sventura. La nostra memoria genetica è satura della violenza, della sopraffazione, della morte, del dolore e dell’impotenza vissute dai nostri antenati nelle infinite guerre da cui è funestato il nostro passato. Alla guerra, si associano nella nostra memoria, come gemelli maledetti, la carestia e la peste, con il loro spettrale e lugubre lascito di degradazione, di distruzione dei legami sociali, di sofferenza e di morte. È talmente pervasiva questa memoria, che non riusciamo a pensare a nessun grave problema collettivo senza incorniciarlo in un contesto di guerra, a cui associamo immediatamente la paura della fame e della malattia che non perdona.

L’arrivo del Covid-19, qualunque ne sia l’origine, naturale o artificiale, descritto come un nemico insidioso e invisibile, ci ha drammaticamente riattivato i vissuti delle generazioni passate. Ci ha messi rapidamente nella condizione di vittime inermi e di bambini impotenti e bisognosi dell’autorità paterna per scampare al pericolo. Memori del passato, biologico e storico, infatti, deleghiamo di solito all’autorità il potere di difenderci. La televisione completamente orientata all’emotività e una comunicazione politica terrorizzante e infantilizzante hanno creato potenti immagini collettive di morte, di guerra, di catastrofe. In guerra, si danno ogni giorno i bollettini dei morti e dei feriti, si sospende la normalità del vivere per fronteggiare la minaccia della morte incombente, si convertono le produzioni industriali, si denunciano i disertori e i disfattisti e si considera tale chiunque esprima qualche forma di dissenso. In guerra, ognuno pensa per sé, si preoccupa solo di salvare la pelle, e gli altri sono temibili concorrenti o, peggio, potenziali untori.

E noi ci siamo cascati. Lo scenario della guerra ci ha fatto regredire al livello del maschile animale, alla mera sopravvivenza biologica, al livello più primitivo e istintivo. A questo livello, l’emozione dominante è la paura: paura della malattia, paura della povertà, paura dell’ignoto, paura della perdita, paura della morte. A sua volta, la paura è potente generatore di azioni pericolose e irrazionali. Quando si ha paura, la mente prende scorciatoie insidiose, si perde lucidità, si prendono decisioni affrettate, illogiche, spesso dannose per se stessi e per gli altri. Se infatti la paura ci salva in situazioni di minaccia immediata, può non essere altrettanto efficiente quando la minaccia è sfuggente, complessa, collettiva. Due effetti della paura prolungata sono certi: l’abbassamento delle difese immunitarie per lo stress e l’aumento dell’influenzabilità. Quando siamo influenzabili, ci sentiamo deboli e impotenti e di fatto rinunciamo al nostro potere. Diventiamo pecore impaurite, docili e sottomesse. E poiché siamo i creatori della nostra realtà, ciò che ci aspettiamo che succeda succede effettivamente. In psicologia si parla della “profezia che si autoadempie”. Tutte le tecniche psicologiche di manipolazione mentale fanno leva sulla paura e i dittatori di ogni epoca lo sanno benissimo. Con la paura, si guidano le masse come il pastore guida il gregge.

La verità è che, sotto qualunque forma, abbiamo paura della morte. La medicina occidentale, frutto di questa società fondamentalmente materialista e de-sacralizzata, ha paura della morte, per questo usa continuamente la metafora bellica per parlare della malattia: “combattere”, “distruggere”, “debellare” il nemico, anzi, il Nemico, perché è la Morte che va sconfitta. Notevole che gli studi di psicologia sulla paura della morte abbiano mostrato come i medici più spaventati dalla morte siano anche i più propensi a trattamenti eroici per “salvare” i loro pazienti ad ogni costo. L’idea che il corpo abbia una sua saggezza evolutiva e risorse di guarigione e che la disposizione d’animo, la dieta, lo stile di vita sano, l’igiene dei pensieri e dell’ambiente possano semplicemente mantenere la salute a lungo, a molti sembra poco “scientifica”, almeno non tanto quanto l’arma ultimativa nella “guerra” senza fine, che sia il vaccino o la medicina salvifica, rigorosamente calate dall’alto dell’Autorità scientifica.

La consapevolezza, poi, che la morte possa essere benigna, che in realtà ci accompagni ogni giorno, a livello cellulare, mentale e spirituale, in tutti i cambiamenti quotidiani, che sono tante piccole morti, tanti distacchi dal passato, che solo accettando profondamente la nostra morte noi possiamo dare un senso compiuto alla vita e vivere felici, che morire bene è cosa profondamente saggia, è lontanissima dai pensieri di molte persone. Cotidie morimur diceva il filosofo Seneca: moriamo ogni giorno, e la lezione che le nostre piccole morti quotidiane dovrebbero lasciarci è che stiamo bene quando non ci identifichiamo troppo con i nostri problemi, con il nostro ego, con le preoccupazioni collettive, con la sofferenza senza tregua dell’umanità intera; quando riusciamo a sentire che c’è nel profondo di noi stessi un’essenza divina, una luce interiore che trascende le vicende del quotidiano e perfino la morte, quando siamo capaci di neutralizzare l’unico, insidiosissimo virus che ci distrugge, che è la paura stessa. La paura non si combatte con le azioni temerarie, ma si trasforma con l’amore per noi stessi e per gli altri. Chi ha paura non ama, o meglio, chi non riesce a prendere le distanze dalla sua paura (la paura è umana, e anche utile, a certe condizioni), non riesce ad amare, perché il suo cuore resta chiuso alla gioia. La paura è una saracinesca che ci imprigiona in una cella senza finestre e ci fa dimenticare chi siamo veramente. Ci muriamo vivi per paura di morire, così rinunciamo a vivere. Ma di questa cella le chiavi sono in nostro possesso.

Non siamo pecore. Abbiamo una natura spirituale, fatta di luce, di amore e di potere. Se ci lasciamo dominare dalla paura e da chi la usa per dominarci, stiamo rinunciando alla nostra responsabilità. Dobbiamo smettere di pensare di essere vittime del destino, fuscelli in balìa degli eventi. Molto di ciò che succede dipende anche da noi. Quanto ci prendiamo cura della nostra salute, invece di delegare? Che cosa mangiamo, come trattiamo il nostro corpo? Quanto ci rendiamo conto delle conseguenze delle nostre azioni, dei nostri pensieri, delle nostre parole? Quanto facciamo per dare senso alla vita? Quanto ci impegniamo per imparare e diventare più consapevoli? Quanta energia dedichiamo a migliorare il mondo in cui viviamo? Quanto ci spendiamo per opporci a ciò che è ingiusto? Quanto amiamo noi stessi (soprattutto noi stessi, completamente, senza riserve!) e gli altri? Quanto ci prendiamo la responsabilità del nostro contributo alla Coscienza collettiva? Quanto siamo capaci di nutrire e proteggere la gioia che è in noi, senza lasciarcela portare via dagli eventi?

L’epidemia di Coronavirus ci ha mostrato, come spesso accade nell’emergenza, il peggio e il meglio delle persone. Abbiamo visto azioni ripugnanti e inqualificabili e gesti meravigliosi di solidarietà e di dedizione: chi sceglie di amare, ha deciso di lasciare andare la paura e di agire responsabilmente. Abbiamo constatato i danni catastrofici di un intero sistema economico fatto di privatizzazioni e di gestione oligarchica e predatoria del bene pubblico, ma assistiamo anche al rinascere di iniziative, proposte, voglia di ricostruire una realtà diversa e migliore. Abbiamo dovuto misurarci con limitazioni impreviste, ma abbiamo anche avuto più tempo per riflettere e per osservare la follia dei nostri ritmi di vita. Il dramma di chi muore da solo per la malattia e di chi ha perso i mezzi di sussistenza perché bloccato in casa ci ha reso manifesti la disumanità e l’ingiustizia del sistema sociale in cui viviamo. La crisi planetaria ci ha messi di fronte ad un bivio: o riprenderci la nostra sovranità, ovvero la nostra responsabilità di decidere e la nostra consapevolezza di cittadini adulti e autonomi, oppure accettare di fare le pecore senza remissione, paurose e tremanti, dipendenti dall’Autorità sempre più dispotica che decide per noi. Non mancano le forze che spingono in questa seconda direzione e che ci hanno pilotati fino ad ora. Ma sta a noi pensare una realtà alternativa a questa e non perdere l’occasione per realizzarla. Ci servono la creatività, l’ispirazione e la morbidezza del Femminile spirituale. Non dobbiamo combattere, ma trasformare. Come diceva Einstein, “non si possono risolvere i problemi pensando nello stesso modo con cui si è giunti a crearli”.

Pubblicato su Rebis il 6 aprile 2020.