Quale scuola per l’Europa che verrà?

Ci sarebbero tanti aspetti del nuovo corso dell’Europa che mi piacerebbe trattare con voi, ma alla fine, come capita spesso (deformazione professionale!) ho deciso di parlare di scuola. Non solo e non tanto perché insegno da oltre tre decenni e perché riesco ancora ad appassionarmi quando ne parlo, ma soprattutto perché in Italia se ne parla ancora troppo poco e in modo poco incisivo. Alla nostra classe dirigente i problemi della scuola tradizionalmente non stanno a cuore. Altrimenti non l’avrebbero devastata con tagli dissennati e farebbero qualcosa per ascoltare i suoi bisogni. E anche questo è un segnale che bisogna cambiare mentalità e cominciare a guardare al futuro.

Senza una scuola nuova, non ci sarà un’Europa dei popoli, quella che la mia generazione ha sognato negli anni ’80. Ma come deve essere una scuola nuova, una scuola del futuro? Direi così, di slancio, l’opposto della scuola vecchia, o, meglio, l’opposto di ciò che ha portato la scuola attuale al degrado e l’ha allontanata dalla sua missione altissima di formare teste pensanti e cittadini consapevoli.

Nei primi anni ’80, mentre noi studenti liceali partecipavamo ai concorsi scolastici banditi dalla Comunità Europea e scrivevamo entusiasti quanto fosse straordinario costruire una casa comune per chi viveva nel Vecchio Continente, dopo secoli di rivalità e guerre, a Parigi si riuniva per la prima volta, nell’aprile del 1983, la Tavola Rotonda Europea degli Industriali (ERTI). L’iniziativa – molto in linea con il credo neoliberista che in quegli anni ci veniva propagandato da Ronald Reagan e Margaret Thatcher – era di Pehr G. Gyllenhammar, l’amministratore delegato di Volvo, che radunò 17 grandi imprenditori europei per discutere di quanto fosse necessario modernizzare l’industria europea per aumentarne la competitività internazionale. Facciamo qualche nome? Peter Brabeck (Nestlé), Paolo Fresco (Fiat), Leif Johansson (Volvo), Thomas Middelhoff (Bertelsmann), Peter Sutherland (BP) o Jürgen Weber (Lufthansa). L’ERTI, da allora, cominciò ad interessarsi della scuola. Gli industriali europei volevano una scuola su misura per le esigenze delle aziende. Inizia di qui la colonizzazione ininterrotta della scuola da parte delle industrie private, che è riuscita a plasmare tutte le riforme scolastiche italiane degli ultimi vent’anni.

Nascono da quelle riunioni l’idea del partnerariato scuola/impresa (ispiratore dell’alternanza scuola/lavoro); l’idea che la scuola debba fornire competenze, anziché conoscenze, visto che alle aziende interessa o il lavoratore già altamente specializzato, che così costa meno formare, oppure quello non specializzato e disposto ad accettare salari sempre più bassi, entrambi possibilmente non troppo istruiti, quindi più docili; l’insistenza sulle tecnologie informatiche, sull’inglese e sullo spirito imprenditoriale, che verrà sintetizzata dalle patetiche “tre i” della Ministra Moratti (Inglese, Informatica, Impresa); l’idea della formazione permanente, in un mondo del lavoro che veniva pensato sempre più precario, instabile e “flessibile”; l’idea che occorra standardizzare la formazione a livello europeo, ottima soluzione per avere abbondanza di manodopera molto mobile e per ridurre gli spazi di autonomia dei docenti; soprattutto, l’idea che la scuola debba essere privatizzata, sottratta al potere nefasto dello Stato, e soggetta all’influenza delle aziende, tanto che la legge sulla Buona scuola di Renzi parla di scuole come fondazioni (vi leggo la formulazione: dopo la premessa che “Le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola” e che “Vale per la scuola quanto è ormai ovvio per moltissimi altri ambiti, a partire dalla ricerca: sommare risorse pubbliche a interventi dei privati è l’unico modo per tornare a competere”, si arriva a dire che “per le scuole deve essere facile, facilissimo ricevere risorse. La costituzione in una Fondazione, o in un ente con autonomia patrimoniale, per la gestione di risorse provenienti dall’esterno, deve essere priva di appesantimenti burocratici.” Ecco quindi la scuola-azienda che deve reperire risorse sul mercato).

“Deregolamentazione” e “decentramento” diventano le parole d’ordine: meno regole, meno Stato, meno centralizzazione dei sistemi scolastici, diversificazione dell’offerta formativa, apertura dell’istruzione al mercato sono le parole d’ordine degli industriali europei. Comincia di qui l’uso assurdo del lessico economico nella scuola: Dirigenti scolastici, anziché Presidi; offerta formativa; debiti e crediti formativi; competenze più nel senso del verbo inglese to compete che di quello latino cum-petere; portfolio delle competenze; successo formativo, piani e pianificazione, innovazione e imprenditorialità, certificazioni e test oggettivi e standardizzati, fino ad arrivare a quella incredibile formulazione che si trova dal 2017 nella valutazione finale in uscita dalla scuola primaria (a 10 anni!): l’allievo deve mostrare una qualità comportamentale che si chiama “Spirito di iniziativa ed imprenditorialità” (Decreto Legislativo 62/2017, art. 2. Valutazione nel primo ciclo).

E l’Europa dov’è in queste politiche scolastiche?

Fino al 1986, le istituzioni europee si disinteressano dell’istruzione. Dal 1986, l’articolo 149 dell’Atto unico europeo sostiene che « La Comunità contribuisce allo sviluppo di una educazione di qualità », ma in ogni modo « rispettando appieno la responsabilità degli Stati membri quanto al contenuto dell’insegnamento e all’organizzazione del sistema educativo ». A ciascuno la sua scuola, quindi. A partire dal Trattato di Maastricht del 1992, sarà la Commissione europea – organo non elettivo – che, andando ben al di là dell’articolo 149, detterà le linee di un’educazione europea. E queste linee, curiosamente, ricalcano esattamente il solco tracciato dalla Tavola Europea degli Industriali. Ne vogliamo un esempio?

L’insegnamento superiore incrementa il potenziale individuale e deve dotare i diplomati delle conoscenze e delle competenze trasferibili essenziali che consentiranno loro di riuscire ad ottenere posti altamente qualificati. Tuttavia, i programmi d’insegnamento reagiscono spesso con lentezza all’evoluzione delle esigenze dell’economia in generale e non riescono ad anticipare le carriere del futuro, né a contribuire a modellarle; i diplomati fanno fatica a trovare un impiego di qualità che sia conforme ai loro studi. Associare i datori di lavoro e le istituzioni del mercato del lavoro alla definizione e alla realizzazione dei programmi, sostenere gli scambi di personale e introdurre l’esperienza pratica nei corsi può aiutare ad adattare i programmi di studio alle necessità attuali e future del mercato del lavoro, favorendo l’occupabilità e lo spirito imprenditoriale. Un migliore controllo da parte degli istituti d’istruzione dei percorsi di carriera dei loro ex studenti può fornire importanti informazioni sull’elaborazione dei programmi e migliorare la loro pertinenza.
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX:52011DC0567

Questa è la scuola vecchia che dobbiamo lasciarci alle spalle. Una scuola-azienda, sfigurata dall’ideologia neoliberista che ha prodotto questa Europa della finanza e delle disuguaglianze, che ha subordinato tutto – la cultura, i diritti, la felicità e il benessere di milioni di europei – alle spietate leggi di un mercato drogato da interessi privati non trasparenti. Bisogna studiare la storia delle politiche scolastiche per capire come attraverso il monopolio ideologico dell’istruzione e dell’università si sia prodotta una visione del mondo misera e distorta che, insieme al controllo ideologico dei media, ha indottrinato un’intera generazione e le ha fatto perdere la consapevolezza del suo potere e dei suoi diritti. Non è vero che non ci sono risorse per la scuola, non è vero che la scuola ha come scopo formare lavoratori, non è vero che deve insegnare a competere.

Il compito primario della scuola pubblica, come ci indicano gli articoli 3, 33 e 34 della Costituzione italiana del ’48, che era assai più avanzata delle miserabili politiche neoliberiste, è formare cittadini, elevare le coscienze, educare al senso critico e alla bellezza, trasmettere, custodire e rinnovare continuamente un immenso patrimonio culturale, permettere a tutti coloro che ne sono in grado di dare il meglio di sé nell’interesse del Paese e di diventare classe dirigente, aumentare la prosperità della società, favorire la solidarietà sociale, l’inclusione, la crescita umana e intellettuale, valorizzare gli infiniti talenti che il nostro Paese ha sempre sfornato e continua nonostante tutto a sfornare. La scuola della Costituzione è pubblica, aperta a tutti e oggetto di particolare cura da parte dello Stato, perché mantiene viva la democrazia. Abbiamo sotto gli occhi lo stato di asfissia in cui versa la democrazia in Italia e che è il prodotto intenzionale delle politiche neoliberiste. Una scuola nuova che guardi all’Europa che verrà non potrà che essere allineata con questi obiettivi, volutamente oscurati da vent’anni di perversa subordinazione dell’istruzione e della cultura alle esigenze dell’economia finanziarizzata.

Per questo, non sono d’accordo (con dispiacere, devo dire) con la proposta di un grande economista e politico come Paolo Savona, che stimo moltissimo, il quale ha detto, in un comunicato apparso su Scenari economici, che occorre “creare una scuola europea di ogni ordine e grado per pervenire a una cultura comune che consenta l’affermarsi di consenso alla nascita di un’unione politica”. E nemmeno sono d’accordo con il progetto di regionalizzare a macchia di leopardo la scuola, messo in atto senza troppa pubblicità dal governo Gentiloni e proseguito con l’attuale governo, in base a quel pateracchio che è la riforma del Titolo V della Costituzione, attuata nel 2001. Pur comprendendo, infatti, le ragioni che vengono addotte a favore di queste due proposte, non ritengo che risolvano il problema di migliorare la scuola. La complessità del sistema di istruzione è tale che le soluzioni all’apparenza più semplici possono non essere quelle giuste. E queste, purtroppo, sono entrambe in linea con il progetto neoliberista di indebolire la sovranità dello Stato, l’una da sopra, per così dire, affidando le politiche scolastiche ad un’entità sovranazionale, l’altra da sotto, indebolendo l’unitarietà del sistema scolastico sul territorio nazionale.

L’idea di una scuola europea potrebbe avere senso se l’Europa fosse politicamente unita e avesse una legislazione comune, specie in materia fiscale, e una comune politica di Welfare. Ma ora ne siamo assai lontani, data la notevole disparità di norme, tradizioni e valori, nonché la perenne rivalità fra gli Stati dell’UE. Ogni sistema scolastico è un mondo a sé e rispecchia la storia, la mentalità, il contesto sociale di un Paese. Vivere a Oslo o a Scampia non è la stessa cosa ed è impensabile che si possano insegnare le stesse materie allo stesso modo. Le spese per l’istruzione sono assai diversificate fra Paesi e, detto per inciso, vedono l’Italia all’ultimo posto. D’altra parte, il nostro liceo classico in altri Paesi (in Germania, per esempio) se lo sognano. Nella sua rigidità d’altri tempi, il sistema scolastico italiano ha conservato punte di eccellenza assolute. Non è annullando le differenze che si crea una coscienza europea (questo è ciò che vorrebbero i vati della flessibilità assoluta), ma facendole dialogare. La scuola del futuro è una scuola dove i docenti sono formati ad altissimi livelli e vanno in missione in altri Paesi per studiare le eccellenze educative e per confrontare esperienze, dove gli investimenti sono massicci e maggiori nei contesti più problematici, dove la scuola è aperta al mondo e costruisce cultura, dove le aziende fanno le aziende e lasciano ai docenti la loro piena libertà di insegnamento, dove i più giovani possono crescere sviluppando al meglio i propri talenti e maturando una consapevolezza civile. Si può imparare a sentirsi europei anche senza avere una scuola europea, ma prima occorre che l’Europa sia un sogno credibile. Ma questo non dipende dalla scuola. E dalle ricerche sui sistemi scolastici si evince che l’innovazione tecnologica è favorita nei Paesi in cui la scuola ha orientamento formativo-generale, anziché tecnico-professionale. Il che può apparire un paradosso, rispetto all’idea della scuola per il lavoro.

D’altra parte, regionalizzare il reclutamento dei docenti e dei dirigenti e creare una specie di gabbia salariale su base regionale non risolve gli annosi problemi della scuola italiana, che ho provato a sviscerare nelle Proposte per una scuola democratica, e ne crea di nuovi. Soprattutto, non rimedia ai danni prodotti da decenni di mala politica: un pessimo sistema di reclutamento dei docenti, la continua creazione di sacche di precariato, l’insufficiente investimento nel sistema scolastico nel suo complesso, la carenza di dirigenti adeguatamente formati, istituti scolastici troppo grandi, classi troppo affollate, edifici scolastici insicuri e inadatti, programmi al ribasso, discontinuità fra ordini di scuola, dispersione scolastica in aumento, frequenza scolastica discontinua, specie nelle aree disagiate, risultati disomogenei su base territoriale, assenza di attenzione per la salute psicofisica dei docenti, i più anziani d’Europa, tanto per citarne alcuni. Norberto Bottani, noto studioso svizzero esperto in sistemi scolastici, sostiene che, a fronte della costante indifferenza dei politici italiani verso la scuola, l’unica soluzione sia la riforma dal basso, a partire dalle singole scuole. Ma le singole scuole sono gestite dai docenti, anche se l’autonomia dei collegi docenti è sempre più minacciata da ogni parte, a cominciare dalla carenza dei fondi di Istituto. E’ questa l’autonomia che serve, non quella che espone le scuole al controllo variamente declinato delle giunte regionali e che risponde all’esigenza di avvicinare le scuola alle richieste delle aziende o di reclutare i docenti su base territoriale. Non ci serve accentuare le differenze fra Nord e Sud, fra insegnanti regionali e statali, fra scuole ricche e scuole povere. Ci serve una scuola pubblica espressione della democrazia, della Costituzione, della sovranità popolare, come ci serve una moneta della sovranità per realizzarla – la moneta non a debito di cui parla il nostro Nino Galloni. Questa scuola è unitaria, perché espressione di un grande Paese afflitto da ingiustificati sensi di colpa e di inferiorità. È una scuola che investe di più dove c’è più bisogno e che dà dignità ai docenti e all’educazione, facendoli sentire non impiegati qualunque, dipendenti di una Regione e soggetti alle decisioni delle maggioranze politiche locali, ma intellettuali e professionisti dello Stato, che hanno fatto della cultura e dell’educazione il loro fondamentale compito civile e che lo Stato valorizza come pubblici ufficiali.

Regionalizzare la scuola è un modo per gettare la spugna, per rinunciare a realizzare una volta per tutte la scuola degli Italiani e per gettare definitivamente nel cestino i principi fondamentali della Costituzione, dichiarandoli lettera morta, primo fra tutti l’uguaglianza delle opportunità sancita dall’articolo 3. Abbiamo visto nella Sanità com’è andata a finire, con le palesi differenze di qualità fra una regione e l’altra. Vogliamo lo stesso per la scuola? E come faremo a sentirci europei se non riusciamo nemmeno a sentirci italiani?

E poi basta con le riforme fatte umma umma nei club privati e nelle stanze del potere. La scuola è l’istituzione che il compito sociale di garantire niente di meno che la continuità della società nel tempo e di emancipare i giovani dall’ignoranza e dalla povertà. Non appartiene a nessuna maggioranza politica, a nessuna giunta regionale. La scuola è dei cittadini ed è ora che si apra una stagione di dibattito pubblico serio e approfondito sui bisogni presenti e futuri della scuola italiana. Ci vuole uno sguardo ampio e lungimirante. Ricordiamoci che il bersaglio del modello neoliberista è la democrazia. E che nella nostra Costituzione, quanto mai keynesiana, e quindi incompatibile con tale modello, nel primo articolo, comma 2 si dice che la sovranità appartiene al popolo. Vogliamo riprendercela, la nostra sovranità, per costruire l’Europa che sognavamo trent’anni fa?

“La difficoltà non sta nello sviluppare idee nuove, ma nel liberarsi di quelle vecchie” (J. M. Keynes).

Si può leggere qui le Proposte per una scuola democratica, documento di analisi e proposta politica per la scuola italiana.