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La violenza sulle donne come prodotto culturale. Uscirne si può?

Il 25 novembre si celebra la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, stabilita dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 1981. Ogni anno, questa data è occasione per fare il punto sulla tutela dei diritti delle donne, sulla parità di genere e sulle politiche messe in atto dagli Stati per contrastare la violenza sulle donne. Dell’argomento si occupano molte ricerche sociologiche, psicologiche e antropologiche. Fra di esse, quella della sociologa Rose Marie Callà (Conflitto e violenza nella coppia, Franco Angeli, Milano 2011). La tesi dell’autrice è che le trasformazioni della famiglia, che negli ultimi 40-50 anni hanno portato la donna a cercare la propria realizzazione nel lavoro e hanno quindi modificato i tradizionali ruoli di genere all’interno della famiglia, hanno anche eroso la supremazia del potere maschile nella coppia, gettando le basi della violenza contro le donne. La violenza sulle donne, insomma, avrebbe soprattutto radici culturali e nascerebbe dal senso di perdita dell’identità maschile e dei ruoli di potere a essa tradizionalmente connessi.

Essa sarebbe quindi la conseguenza di una serie di trasformazioni storiche della famiglia in Occidente, che in Italia, negli ultimi decenni, in seguito al processo di industrializzazione, si riflettono nel diritto, favorendo una maggiore parità fra i sessi (diritti politici per le donne; abolizione delle attenuanti per uxoricidio come delitto d’onore; riforma del diritto di famiglia; leggi sul divorzio, sull’aborto, sulla violenza sessuale come reato contro la persona; accesso alle professioni; tutela della maternità).

Nella famiglia tradizionale, specialmente nel mondo rurale, dove la famiglia ha compiti sia produttivi sia riproduttivi, i ruoli maschili e femminili sono chiaramente distinti. Sia nelle famiglie nucleari (composte da genitori e figli), maggiormente diffuse nelle città, sia nelle famiglie estese o a ceppo (secondo la classificazione di Peter Laslett), più diffuse nelle campagne, è preminente il maschio capofamiglia, al quale la mentalità comune e il diritto assegnano una posizione dominante nella famiglia. In molti paesi europei (in Italia fino alla Riforma del diritto di famiglia del 1975, quando viene introdotta per legge la parità fra i coniugi sia nei rapporti personali sia rispetto ai figli), il marito esercita la potestà maritale (potere giuridico sulla moglie) e la patria potestà (potere giuridico sui figli), che gli consente, per esempio, di stabilire dove la famiglia debba risiedere. L’assenza della possibilità di divorziare – fino al referendum sul divorzio del 1974 – in questa situazione di subordinazione femminile rende di fatto la moglie non autonoma e spesso succube dell’uomo. La subordinazione al marito riguarda sia la sfera personale sia quella patrimoniale (obbligo della dote ed esclusione della moglie vedova dall’eredità, per esempio, ma anche assenza di un reddito proprio e quindi dipendenza economica).

Nelle società tradizionali (intendendo con questo termine non solo le società occidentali premoderne, ma anche quelle moderne fino agli anni Settanta del XX secolo), al marito paterfamilias viene assegnato il ruolo di breadwinner, ovvero di fonte del reddito familiare e alla moglie il ruolo di responsabile della gestione della casa e della cura della prole. Questa divisione dei ruoli è rispecchiata dalla sociologia funzionalista di Talcott Parsons, che negli anni Cinquanta considera la famiglia una piccola società dove si formano personalità umane e applica ad essa il modello AGIL: il padre svolge le funzioni economiche (Adaptative), decisionali (Goal Attainment) e normative (Integrative), la madre si occupa di educare i figli (Latent pattern maintenance). La disuguaglianza dei ruoli di genere viene spesso accompagnata da ragioni ideologiche: la donna è più emotiva e fragile; non è in grado di svolgere certe professioni che richiedono forza o razionalità; i figli hanno bisogno di cure materne, che sono istintive e naturali nella donna.

La diversità dei ruoli familiari rispecchia una concentrazione del potere in mano al genere maschile che attraversa tutta la società. Anche se le norme giuridiche (in primis la Costituzione) sottolineano l’uguaglianza giuridica fra i coniugi, di fatto la mentalità maschilista è difficile da scardinare. Quando le donne, in seguito alle lotte femministe, ottengono il diritto di voto e di accesso all’istruzione e al lavoro, il divorzio e la potestà genitoriale, il riconoscimento della gravità di alcuni reati legati al genere (come lo stupro, riconosciuto come reato contro la persona e non contro la morale solo nel 1996, e l’uxoricidio per mano di un coniuge geloso, il famoso delitto d’onore così ben raccontato da Pietro Germi in Divorzio all’Italiana e abolito, insieme al matrimonio riparatore, solo nel 1981), e quindi diventano più autonome e meno subordinate al marito o al compagno, entra in crisi il modello della supremazia maschile e un certo numero di uomini non riesce ad accettarlo. Il lavoro consente alla donna l’autonomia economica e la realizzazione delle proprie attitudini personali, anche attraverso l’istruzione, permettendole di ricoprire posizioni tradizionalmente affidate ai maschi. La mancanza di una ridefinizione dei ruoli maschili e femminili rende poco definita l’identità dell’uomo, che talvolta percepisce la donna come antagonista in un gioco competitivo, anziché come compagna di pari dignità in un gioco cooperativo. I ruoli femminili tradizionali – casalinga, angelo del focolare, maestra, domestica, segretaria ecc. – sono socialmente svalutati e molti uomini fanno fatica ad assumerli.

Negli ultimi decenni la famiglia ha perso parecchie delle funzioni tradizionali (come sostengono per esempio, fra gli anni ‘50 e ‘60, Parsons e Bales, Riesman, Horkheimer e Adorno, i quali parlano tutti di «crisi della famiglia») e ne hanno acquisite di nuove: la famiglia attuale tende a essere una realtà privata, fondata sull’intimità, provvede a socializzazioni secondarie oltre che primarie, supplisce alle carenze dello Stato sociale nell’assistenza dei più deboli, coordina le varie socializzazioni. Con la globalizzazione, che ha acuito il senso di incertezza, la famiglia tende a essere meno stabile e presenta strutture variabili, aumentano di numero i nuclei familiari, mentre diminuisce il numero di componenti, diminuisce la nuzialità a favore di forme di convivenza non istituzionalizzate. Questa maggiore fluidità rende ancora più difficile riconoscersi nei ruoli tradizionali. (C. Saraceno, M. Naldini, Sociologia della famiglia, Il Mulino, Bologna, 20133).

La socializzazione primaria contribuisce grandemente al mantenimento dei ruoli sessuali, perché fin dalla nascita i bambini di sesso diverso ottengono trattamenti diversi. I modelli di genere si acquisiscono per imitazione dei modelli familiari, spesso rinforzati dai mass media e dalla pubblicità sessista, che presenta la donna come oggetto di piacere e non come soggetto umano dotato di dignità, capacità e diritti. Non si tratta di una condizione universale delle donne. Realtà culturali lontane e diverse, studiate dagli antropologi, ci presentano sia tradizioni di più o meno brutale sottomissione delle donne al potere maschile sia una sostanziale uguaglianza e armonia fra i sessi. Margaret Mead ci ha fatto riflettere sulla differenza fra sesso e genere e sul ruolo della socializzazione nella definizione delle caratteristiche maschili e femminili.

La violenza nella coppia ha cause molteplici ed è la forma più diffusa della violenza sulle donne, la quale è una delle forme della violenza sociale in genere.  Le teorie unicausali – che attribuiscono la violenza esclusivamente a fattori biologici, psicopatologici o psicologici – non sembrano esaustive. Le ragioni culturali e la mentalità sessista sembrano proprio, nella ricerca sociale, le cause prevalenti, anche se non le uniche, spesso rinforzate da insicurezza e incompetenza emotiva, specie in ambito familiare. La violenza nasce dallo squilibrio di potere e mira a ristabilire l’asimmetria e il dominio quando la persona violenta ha la sensazione di perdere la supremazia. Non è un problema solo maschile, naturalmente, anche se gli uomini violenti sono di gran lunga più numerosi delle donne violente.

In realtà, anche se una falsa notizia diffusa dal Consiglio d’Europa il 27 settembre del 2002 e ripresa acriticamente dai media affermò che la violenza sarebbe la prima causa di morte (in Europa) per le donne fra i 14 e i 44 anni, la violenza sulle donne per fortuna non ha esiti mortali così frequenti. La gravità del problema sta piuttosto nella sua diffusione, specie fra le mura domestiche. L’OMS calcola che, nel mondo, almeno una donna su cinque nella sua vita abbia subito abusi fisici o sessuali da parte di un uomo. L’ISTAT ne segnala una su tre in Italia nel 2014 fra i 16 e i 70 anni. Le forme della violenza di genere sono diverse: prima di tutto, è violenza psicologica, che mira a sottomettere, umiliare, controllare l’altro; poi è violenza fisica, economica, sessuale, persecutoria (dal 2009 è stato introdotto il reato di stalking). La violenza psicologica non è meno drammatica di quella fisica e si verifica soprattutto in famiglia  (ISTAT 2015). I danni prodotti sono gravissimi e riguardano la vita, la salute psicofisica, il benessere dei figli, con una ricaduta economica e umana imponente sull’intera società.

Ma si può rimediare al problema?

Rispetto agli squilibri di potere fra i sessi, l’educazione in famiglia e a scuola può agire sia in senso conservatore sia in senso innovatore. Può passare sotto silenzio o addirittura promuovere stereotipi sessuali e discriminazione fra i sessi, come avveniva per esempio sotto il fascismo o il nazismo con la loro esaltazione della funzione riproduttiva della donna o, in tempi più recenti, fino a qualche decina di anni fa, quando anche a scuola alle ragazze venivano proposte le attività “donnesche” (cucire, cucinare, riordinare la casa) e fino agli anni Sessanta venivano loro precluse alcune professioni, come quelle del giudice, del questore, del prefetto, dell’ambasciatore o del carabiniere. Lo stesso può fare la socializzazione attraverso i mass media, che può combattere o rinforzare le asimmetrie di genere. Si può riflettere anche sui modelli di comportamento che vengono diffusi dalla televisione e dai media che favoriscono una visione asimmetrica dei rapporti fra i sessi e che umiliano le donne, anche con la loro stessa complicità (come chiarì, per esempio, il documentario di Lorella Zanardo Il corpo delle donne).

L’educazione alla differenza, alla democrazia e alla non-violenza può dare un contributo a cambiare la mentalità maschilista e in generale a concepire i rapporti umani come paritari, solidali, empatici, anziché competitivi e fondati sul potere. Gli esseri umani sono programmati per la socialità, non per la competizione. L’educazione al riconoscimento e alla gestione delle emozioni avrebbe un ruolo centrale (l’intelligenza emotiva di cui parlano Daniel Goleman e Peter Salovey). Non sempre viene insegnata ai bambini la competenza emozionale e interpersonale. Serve però soprattutto che gli adulti forniscano modelli di comportamento adeguati, perché, come ci ha insegnato la teoria dell’apprendimento sociale, è l’imitazione del comportamento la forma di apprendimento più diretta in ambito sociale. Sarebbe inoltre anche utile un dibattito civile che porti a una regolamentazione ulteriore dei programmi televisivi, della pubblicità, dei videogiochi e in generale dei media che offrono esempi di sopraffazione maschile; a una maggiore tutela giuridica ed economica delle vittime di violenza; all’attivazione di campagne di sensibilizzazione e di misure cautelari e di recupero adeguate per gli uomini violenti. Servirebbe, infine, una classe politica sensibile al tema della violenza, che investa, come previsto dalle normative europee, fondi sufficienti per i centri antiviolenza e per l’assistenza, la prevenzione e il trattamento delle persone coinvolte nella violenza, spesso minori.

Per questo occorre promuovere l’educazione affettiva ed emotiva come un obiettivo educativo fondamentale della scuola e la tutela dell’integrità personale come un bene prezioso da proteggere attraverso la consapevolezza dei diritti. Il fatto di parlare della violenza domestica ha in effetti migliorato la situazione in Italia: i casi si sono complessivamente ridotti e questo fa ben sperare. Ma occorre anche inquadrare il problema nella cornice sociale e globale di un mondo neoliberista competitivo, spietato, ingiusto, che genera tensioni, conflitti e povertà e contribuisce non poco ad alimentare- oltre ai suicidi – disperazione, violenza e sopraffazione, le quali nel contesto delle relazioni familiari profonde trovano lo sbocco più immediato e devastante.

Lavorare, ma non troppo. Elogio del tempo libero

Quaranta ore di lavoro o più alla settimana sono troppe per noi umani. Una ricerca del Melbourne Institute of Applied Economic and Social Research australiano, pubblicata nel 2016, ha rivelato che il numero ottimale di ore lavoro è 25 per settimana, il che equivale a tre giorni invece che 5, soprattutto se si hanno più di 40 anni. Quando si va oltre, le capacità cognitive calano drasticamente e subentrano fatica e stress. Gli studiosi hanno verificato la tenuta della memoria, delle capacità linguistiche, della concentrazione e della velocità di elaborare le informazioni. E hanno attestato che le funzioni cognitive restano alte solo fino a 25 ore, poi calano drasticamente.

Ma se un orario ridotto sembra utopia per la maggior parte di noi, è invece una realtà in Olanda, dove dal 2000 è in vigore una legge che permette ai lavoratori di ridurre le ore e chiedere il part time. La settimana a 4 giorni è diffusa e adottata dall’86 per cento delle donne che hanno figli e dal 12 per cento dei padri.

John Maynard Keynes aveva previsto che grazie alla tecnologia avremmo potuto lavorare di meno. Entro il 2030, sosteneva, le 15 ore settimanali sarebbero diventate la norma.

La tecnologia dovrebbe avere come effetto positivo una riduzione dell’orario di lavoro. Invece, assistiamo spesso alla cinesizzazione del lavoro, con un aumento spropositato di ore giornaliere e un prolungamento fino all’inverosimile della vita lavorativa. In una società nella quale i diritti di tutti e di ciascuno siano al centro, oltre al diritto al lavoro dovrebbe essere valorizzato il diritto al tempo libero.

Già Marx, con la sua classica analisi dell’alienazione dell’operaio nella società capitalistica, aveva messo in luce come la durata della giornata lavorativa contribuisse, insieme alla sua subordinazione alle esigenze produttive, a disumanizzare il lavoratore e a degradarlo a schiavo della macchina.

Per formarsi, per sviluppare il senso del bello, per partecipare alla vita civile, per interessarsi di ciò che trascende l’immediato e il particolare, per sviluppare la creatività, per vivere pienamente, insomma, occorrono due condizioni: essere liberi dall’impellenza del bisogno, e quindi avere diritto ad un lavoro dignitoso e adeguatamente remunerato, ed essere liberi di utilizzare il proprio tempo – naturalmente limitato – per fare ciò che si vuole e per realizzarsi come persona, come componente di una famiglia e come cittadino, parte attiva del corpo sociale.

Il tempo libero del lavoratore fu costantemente avversato durante la Rivoluzione industriale e nel corso dell’Ottocento, soprattutto in Europa, dove, in un contesto di marcata disuguaglianza sociale, si tendeva a considerarlo come tempo dedito all’ozio, ai vizi e alle attività sovversive. Per questo fu cura di governi e di classi dirigenti irregimentarlo e controllarlo il più possibile.

Ma questa visione paternalistica e reazionaria del tempo libero mal si concilia con la democrazia. Non per nulla la Costituzione americana contempla anche il diritto alla felicità.

Oggi sappiamo che grandi geni dell’umanità, come Charles Darwin, Henri Poincaré, Thomas Jefferson lavoravano 3 o 4 ore al giorno e anche meno. Lavorare poco è un vantaggio per la società e una risorsa per l’economia. Lo diceva perfino il padre del liberismo economico, Adam Smith: “L’uomo che lavora in maniera così moderata da riuscire a lavorare in maniera costante non solo preserva più a lungo la propria salute ma, nel corso di un anno, esegue la maggiore quantità di lavoro possibile”.

La libertà dalla schiavitù del lavoro come da quella del bisogno dovrebbe essere fra gli obiettivi di un progetto politico davvero democratico ed evoluto.

Le regole del dialogo in democrazia

”…la democrazia non è soltanto un abito esteriore di regole, ma è anche un atteggiamento interiore che dà corpo alle istituzioni; … non c’è democrazia senza un ethos conforme e diffuso; … lo scheletro, fatto di regole, è importante ma non sufficiente; … la più democratica delle costituzioni è destinata a morire, se non è animata dall’energia che è compito dei cittadini trasmetterle”. A. Zagrebelsky

Gli ingredienti della democrazia sono tanti, ma il metodo con cui viene realizzata concretamente è costituito dal dialogo. Senza dialogo, anche di fronte all’apparenza della democrazia, viene meno la sostanza di essa. Una persona autenticamente democratica sa dialogare, perché nutre la fiducia profonda che la verità non sia patrimonio di qualcuno in particolare, ma sia raggiungibile attraverso la ricerca associata. Tuttavia, non è affatto scontato saperlo fare. I mass media e i politici ci danno ogni giorno pessimi esempi al riguardo.

Una delle strategie più utilizzate nella comunicazione pubblica è quella dell’avvelenamento del pozzo, che consiste nel delegittimare in anticipo qualunque cosa l’avversario possa dire, insinuando che sia scorretto, in cattiva fede o poco credibile dal punto di vista scientifico, morale, politico ecc. Qualunque cosa la persona dirà, verrà pubblicamente ignorata, considerata irrilevante o accolta come falsità (F. D’Agostini, Verità avvelenata, p. 11). Come una piccola quantità di veleno versato in un pozzo può avvelenare un’intera comunità, così questa strategia retorica distrugge il dialogo e di conseguenza la democrazia.

Il ventennio berlusconiano ci ha abituati alla distruzione delle regole del dialogo sui media e all’avvelenamento sistematico del dibattito pubblico. Oggi è perfino difficile accorgersi del livello di nichilismo argomentativo a cui siamo giunti. Non che prima mancassero usi fallaci e manipolativi della comunicazione politica, ma ora basta affacciarsi a qualche discussione su Facebook per accorgersi di quanto pervasivo e disastroso sia stato l’avvelenamento collettivo.

Un movimento politico che proponga un progetto autenticamente democratico deve secondo me interrogarsi a fondo sulle regole del dialogo democratico e applicarle in modo sistematico al proprio dibattito interno, a cominciare dalle discussioni su Facebook. La democrazia è un modo di essere, prima ancora che un modo di pensare.

Pur rendendomi conto dell’incompletezza del discorso, provo ad elencare le strategie secondo me più utili allo scopo di far progredire la discussione e a condurla a risultati costruttivi. Contribuiscono a questa proposta la riflessione sul metodo socratico e sulla teoria dell’argomentazione, le pagine di Zagrebelsky sulla democrazia, l’esperienza di anni di lavoro con i gruppi e di mediazione dei conflitti e la fiducia profonda che la verità abbia una forza persuasiva peculiare, quando la si cerchi con onestà intellettuale.

Come prima regola, occorre scoprire la felicità dell’errore. Quando siamo colti in errore, spesso ci risentiamo e ci inalberiamo, feriti nel nostro narcisismo. Eppure, Socrate insegna che occorre rallegrarsi quando qualcuno ci mette di fronte al nostro errore, perché così la nostra conoscenza progredisce. C’è un’intera pedagogia dell’errore da rivalutare a questo proposito, anche a scuola.

La seconda regola è diretta conseguenza della prima: la verità è l’oggetto della discussione e il fine di essa, non la sua premessa. Nessuno può vantare dogmaticamente il possesso preliminare della verità. Il dogmatismo uccide il dialogo in culla. Il punto di partenza di una discussione è una tesi, sempre parziale e unilaterale. Occorre qui distinguere fra dialogo persuasivo, in cui A sostiene p per convincere B, mentre B non sostiene nulla, e dialogo euristico, in cui A sostiene p e B sostiene non-p. In questo secondo caso, il fine della discussione non è avere ragione, ma sapere chi ha ragione e qual è la ragione migliore (F. D’Agostini, p. 181). In caso contrario, è una disputa, che non porta da nessuna parte. Il dialogo persuasivo è utilizzato per esempio dal politico per farsi eleggere o dall’avvocato per difendere il suo cliente, il dialogo euristico è quello che invece ci interessa più direttamente.

La terza regola è il rispetto dell’interlocutore: poiché l’avvelenamento si scatena proprio quando delegittimiamo l’interlocutore, questa è una vera e propria strategia disintossicante. Non si criticano mai la persona o le sue qualifiche, ma sempre e solo il contenuto delle sue affermazioni. A volte si sente affermare che su un certo argomento (scientifico, economico, politico) devono parlare solo gli esperti, e quindi si nega valore a quanto dice l’interlocutore, giudicato incompetente, ma si tratta di una fallacia argomentativa (fallacia ad verecundiam o ad auctoritatem): è evidente infatti sia che a volte un’autorità può sbagliare sia che la verità può venire anche da una persona inesperta (mi ricordo come rimasi a bocca aperta quando dissi a mia figlia di 6 anni che, secondo alcuni scienziati, lo spazio è curvo e lei mi rispose subito: “Ma se lo spazio è curvo, allora l’universo è finito!”). Avere certezze preliminari rappresenta un ostacolo al raggiungimento della verità. Mai sottovalutare l’interlocutore e valutare unicamente la validità e la correttezza degli argomenti. Tutti possono parlare di tutto, se lo fanno rispettando le regole dell’argomentazione e se sono disposti al confronto e al riconoscimento dell’errore.

La quarta regola completa quella precedente: il dialogo deve accertare se la divergenza riguarda la descrizione dei fatti o degli eventi in questione o l’interpretazione di essi. In ogni caso, il dialogo deve fare riferimento ai fatti, senza accordo sui quali non c’è progresso nella discussione. Occorre costruire un terreno comune. Spesso occorre ricostruire i fatti mettendo insieme e confrontando diverse descrizioni di essi, per arrivare ad una ricostruzione condivisa. Questo però richiede che entrambi gli interlocutori prendano in considerazione i dati di fatto presentati dall’altro. Rifiutarsi di farlo a prescindere chiude subito il dialogo. Rifiutarsi di accogliere la ricostruzione dell’altro, quando è la più credibile, pure.

La quinta regola è la pertinenza: il dialogo procede se l’obiezione di B è pertinente all’affermazione di A. Riuscire a non divagare e a non introdurre nel discorso argomenti estranei consente di avanzare, altrimenti crea confusione.

La sesta regola è il rispetto delle regole logiche e argomentative. Qui l’esempio che viene dai media è disastrosamente negativo. Ma anche nel dibattito scientifico ricorrono spesso delle fallacie logiche o argomentative. Una delle più ricorrenti è la fallacia ad ignorantiam. A sostiene p dicendo che non ci sono le prove di non-p. Per esempio: non ci sono prove che il diserbante x o il farmaco y provochino il cancro o altra patologia, di conseguenza si possono usare tranquillamente. Si tratta di un errore: l’assenza di una prova non equivale affatto alla prova di un’assenza. Non trovare il cadavere di una persona scomparsa non implica affatto che non sia morta. Non avere le prove della colpevolezza di qualcuno non vuole dire affatto che quella persona sia innocente. Questo errore logico grave (dogmatismo ad ignorantiam) deriva da un particolare modo di intendere la verità, che si chiama epistemicismo (una proposizione è vera se e solo se è giustificata), combinato con il realismo (una proposizione che non è vera è falsa): il piano logico e quello fattuale vengono arbitrariamente considerati intercambiabili, per cui non vero = falso e non falso = vero (F. D’Agostini, cit.. pp. 120-121). In realtà, dall’assenza di prove possiamo correttamente ricavare al più una dichiarazione di ignoranza. La conoscenza delle fallacie argomentative, che sono numerose e talvolta sottili, rende il dialogo molto più produttivo, perché consente di ridurre gli errori di ragionamento, soprattutto in ambito politico, e di affrontare intrepidamente la ricerca della verità. Consente inoltre di non farsi abbindolare da falsi argomenti e di saper controbattere alle fallacie altrui. Se a qualcuno interessa, possiamo approfondire in ulteriori articoli e condividere conoscenze. Una buona introduzione è quella di Franca D’Agostini, citata in fondo.

La settima e ultima regola che propongo è la curiosità: non c’è modo di arrivare da nessuna parte in una discussione senza la curiosità di conoscere e il piacere di ascoltare. Il dialogo, in fondo, è ciò che ci contraddistingue come esseri umani e sociali. Fare domande, chiedere chiarimenti, interessarsi genuinamente della prospettiva del nostro interlocutore rende il dialogo un’attività piacevole e umanamente arricchente e realizza una delle qualità più felici della democrazia, che è la partecipazione.

E’ stato detto con ragione che “nessuno, da solo e senza compagni, può comprendere adeguatamente e nella sua piena realtà tutto ciò che è obbiettivo, in quanto gli si mostra e gli si rivela sempre in un’unica prospettiva, conforme e intrinseca alla sua posizione nel mondo. Se si vuole vedere ed esperire il mondo così com’è ‘realmente’, si può farlo solo considerando una cosa che è comune a molti, che sta tra loro, che li separa e unisce, che si mostra a ognuno in modo diverso, e dunque diviene comprensibile solo se molti ne parlano insieme e si scambiano e confrontano le loro opinioni e prospettive. Soltanto nella libertà di dialogare il mondo appare quello di cui si parla, nella sua obiettività visibile da ogni lato” (H. Arendt, in Zagrebelsky, cit., p. 29).

Franca D’Agostini, Verità avvelenata. Buoni e cattivi argomenti nel dibattito pubblico, Bollati Boringhieri, Torino 2010.

Gustavo Zagrebelsky, Lezione di democrazia alla Biennale Democrazia, Torino 2009 (http://paigrain.debatpublic.net/wp-content/uploads/lezione_zagrebelsky.pdf); anche in Imparare democrazia, Einaudi, Torino, 2007.

La scienza è davvero oggettiva?

Il metodo scientifico è indubbiamente una delle più grandi conquiste dell’umanità. Grazie al pensiero critico della scienza si è messo in discussione il principio di autorità e si è preparata la strada ad una società democratica. Ma oggi si rischia di trasformare la scienza in quello che non è, ovvero un sapere autoritario e dogmatico. Uno sconcertante articolo di Nature del 2017 constata che il 70% o più delle ricerche pubblicate non è replicabile, e quindi non credibile in base al metodo scientifico.

Su questo argomento, e in generale sull’illusione dell’obiettività scientifica, ha scritto pagine molto riflessive e pacate Rupert Sheldrake, biologo all’Università di Cambridge (Seven Experiments that could changhe the world, New York, Riverhead, 1995, 2002, pp. 165-177). Cito in traduzione mia:


“Molti non-scienziati sono intimoriti dal potere e dall’apparente certezza della conoscenza scientifica. Altrettanto succede a molti studenti di materie scientifiche. I libri di testo sono pieni di fatti apparentemente incontestabili (hard) e di dati quantitativi. La scienza sembra supremamente oggettiva. Oltretutto, la credenza nell’obiettività della scienza è argomento di fede per molte persone oggi. (…) Questa immagine della scienza viene raramente discussa esplicitamente dagli stessi scienziati. Essa tende ad essere assunta implicitamente e data per scontata. Pochi scienziati mostrano grande interesse per la filosofia, la storia o la sociologia della scienza, e c’è poco spazio per questi argomenti nel fitto curricolo dei corsi di laurea in scienze. I più semplicemente danno per scontato che per mezzo del “metodo scientifico” le teorie possano essere testate oggettivamente da un esperimento in un modo che sia incontaminato dalle aspettative, dalle idee e dalle credenze personali degli scienziati. Gli scienziati amano pensare di se stessi di essere impegnati in una audace e impavida ricerca della verità.


Questa visione ora suscita un certo cinismo. Ma io penso che sia importante riconoscere la nobiltà di questo ideale. Finché l’impresa scientifica è illuminata da questo spirito eroico, c’è molto da lodarla. Tuttavia, in realtà la maggior parte degli scienziati è ora serva di interessi militari e commerciali. Quasi tutti perseguono carriere all’interno di istituzioni e organizzazioni professionali. La paura di un rovescio nella carriera, il rifiuto di articoli da parte di riviste scientifiche, la perdita di fondi, e la sanzione estrema del licenziamento sono potenti disicentivi ad avventurarsi troppo lontano dall’ortodossia corrente, almeno in pubblico. Molti non si sentono sicuri abbastanza da esprimere le loro reali opinioni finché non sono andati in pensione o hanno vinto un premio Nobel o entrambe le cose.


I dubbi popolari sull’obiettività degli scienziati sono largamente condivisi, per ragioni più sofisticate, da filosofi, storici e sociologi della scienza. Gli scienziati sono parte di più vasti sistemi sociali, economici e politici; essi costituiscono gruppi professionali con proprie procedure di accesso, pressioni dei colleghi, strutture di potere e sistemi di ricompensa. Essi lavorano per lo più nel contesto di paradigmi o modelli di realtà stabiliti. E anche nei limiti posti dal sistema di credenze scientifiche prevalente, essi non vanno in cerca di puri fatti per il loro interesse: essi fatto congetture o ipotesi su come stiano le cose, e poi le testano con un esperimento. Di solito questi esperimenti sono motivati dal desiderio di supportare un’ipotesi preferita o di respingere quella rivale. Ciò che si ricerca e perfino ciò che si trova è influenzato dalle proprie aspettative consce e inconsce”. (pp. 165-166).


Il discorso poi procede sui biases della ricerca, sull’autoinganno e sui problemi delle Peer review, compresa la selezione degli articoli, la replicabilità e la frode. Insomma, Nature ha scoperto l’acqua calda…

L’obbligo vaccinale, ovvero: perché molti cittadini italiani non si fidano del loro governo? [Parte seconda]

Considerata dal punto di vista politico-economico, la questione dell’obbligo vaccinale (e non della vaccinazione in sé, che non è qui in discussione) assume ulteriori aspetti rilevanti.

La Global Health Security Agenda (GHSA), un accordo patrocinato nel 2014 dagli USA con oltre 50 Paesi, organizzazioni ed enti non-governativi con l’obiettivo rendere il mondo sicuro dalle malattie infettive e di porre la sicurezza sanitaria fra le priorità nazionali e globali, ha individuato nell’Italia e nel Portogallo i Paesi capofila a livello mondiale della vaccinazione contro il morbillo e contro le malattie infettive per gli anni 2014-2019 (GHSA Action Package Prevent-4). L’intento è di arrivare in Italia alla copertura vaccinale del 90% in cinque anni per i bambini di 15 mesi. Ovviamente, il piano si inserisce in un progetto globale degli USA che mirano a vaccinare 4 miliardi di persone in 30 Paesi entro 5 anni, come dice con enfasi l’infografica del GSHA. L’interesse statunitense si spiega con il fatto che le maggiori aziende produttrici di vaccini sono statunitensi.

Questa iniziativa americana, alla quale evidentemente il nostro governo ha aderito con entusiasmo, stante anche il richiamo della OMS all’Italia per l’aumento dei casi di morbillo nel nostro Paese, rappresenta una potente motivazione per il decreto sull’obbligo vaccinale del Ministro Lorenzin e per l’improvviso allarme diffuso sui media rispetto alla vaccinazione contro il morbillo. Pur riconoscendo le possibili gravi complicanze che possono derivare da questa malattia, sono da osservare i toni allarmistici e i dati scorretti forniti dal ministro e rimbalzati sui media sulla pericolosità del morbillo. Tre esempi.

A Porta a Porta del 22/10/2014 al minuto 36:22 la Ministra Beatrice Lorenzin dichiara che “solo di morbillo a Londra, cioè in Inghilterra, lo scorso anno [quindi nel 2013] sono morti 270 bambini per una epidemia di morbillo molto grave”. Secondo i dati ufficiali del governo inglese, invece, nel 2013, di morbillo si è registrato 1 decesso, di un uomo di 25 anni, in seguito ad una polmonite acuta quale complicanza del morbillo, come si legge qui a fondo pagina . Da notare che i test per stabilire se la causa del decesso fosse il virus non hanno dato alcun esito. L’ultimo anno in cui si sono registrati più di 200 morti per morbillo nel regno Unito è il lontano 1953.

A Piazza Pulita del 22/10/2015 [esattamente un anno dopo] al minuto 5:57 la Ministra Beatrice Lorenzin dichiara: “Di morbillo si muore, in Europa! … c’è stata una epidemia di morbillo a Londra lo scorso anno [quindi nel 2014], sono morti più di 200 bambini…”. Invece, secondo i dati ufficiali, nel 2014 ci sono stati 59 casi totali di morbillo a Londra e nessun decesso (si può controllare qui). Dal 1989 al 2013 i decessi per morbillo nell’intero Regno unito sono oscillati tra 0 e 4, come si può verificare qui. Come anche in Italia, del resto, dove, a fronte di un aumento dei casi di malattia nell’ultimo anno rispetto a quello precedente con prevalente interessamento della popolazione adulta, non si è registrato nemmeno un decesso. Si può verificare qui, sul bollettino ufficiale dell’Istituto Superiore di Sanità.

Tanto per continuare sulla stessa linea (quindi la ministra o ignora quello che dice, e la cosa sarebbe grave, o mente intenzionalmente, e allora è gravissima), il 21 luglio 2016, in un’intervista de Il Messaggero, la Ministra Lorenzin risponde: «…… In Gran Bretagna tre anni fa c’è stata una epidemia di morbillo – dovuta proprio al fatto che molti avevano rinunciato al vaccino – che ha causato la morte di centinaia di persone. Per correre ai ripari è stato varato un piano di emergenza e di prevenzione costato centinaia di milioni di euro».

Tra l’altro, il fatto che il maggior numero di nuovi casi (incidenza cumulativa per fascia di età) si collochi nella fascia di età superiore ai 15 anni (oltre il 73% dei casi; si veda il rapporto RM News appena citato a p. 3), rende difficile comprendere quale nesso vi sia fra questo picco di casi e la diminuzione della copertura vaccinale nei neonati, registrata negli ultimi anni, che pure è l’unica spiegazione ufficialmente addotta e qui ripetuta dalla ministra per giustificare l’introduzione dell’obbligo vaccinale. Ci possono essere – e in questo caso ci sono per forza – anche altre ragioni che spieghino l’aumento dei casi. Il fatto è un Ministro di una democrazia non dovrebbe permettersi di mentire ad un intero Paese, perché così facendo vìola ogni patto fiduciario con i cittadini. E la stampa – se fosse libera – dovrebbe rilevare subito la clamorosa manipolazione dei dati. Un Ministro che mente non dovrebbe restare al suo posto. Solo una concezione arrogante, proprietaria e illiberale del potere può dare vita ad una relazione così poco trasparente e democratica fra governo e cittadini. Da notare che le autorità sanitarie non sono mai intervenute – almeno a quanto mi risulta – a correggere pubblicamente i dati palesemente scorretti; il che getta un’ombra, ovviamente, anche sulla loro buona fede e mette in allarme i cittadini più consapevoli.

Ma perché gonfiare in questo modo i dati? Perché creare allarme nella popolazione, citando continuamente le cifre di un bollettino di guerra, che riguarda al più i Paesi in via di sviluppo, dove le epidemie si diffondono per condizioni igienico-sanitarie carenti, mentre nei Paesi europei e negli USA si tratta di un numero di morti che si conta (quando ce ne sono) sulle dita di una mano? Come si deve chiamare questo tipo di politica? Terrorismo psicologico? Procurato allarme? Intimidazione? Fake news?


Questa modalità manipolativa di gestire l’informazione sui vaccini, specie se proviene dagli organi istituzionali, non può che ispirare diffidenza nella gente. I genitori più dubbiosi sulle vaccinazioni sono anche quelli che vanno a cercare informazioni su Internet, e soprattutto sui siti istituzionali. E qui scoprono che, mentre vengono enfatizzate in misura iperbolica le morti per il morbillo, si tace del fatto che si sospetta siano molto più numerose le morti per il vaccino antimorbillo. Il 24 ottobre 2010 il Sunday Times pubblica un articolo sui danni vaccinali. Si tratta di dati ufficiali del MHRA, la Medicines and Healthcare products Regulatory Authority del Regno Unito, ovvero l’autorità governativa che si occupa di farmaci e di salute pubblica, non pubblicati ufficialmente, ma ottenuti dal Sunday Times sulla base del Freedom of Information Act. Sulla base dei dati raccolti sulle reazioni avverse dei vaccini, specie del vaccino trivalente morbillo-parotite-rosolia, si scopre che, dal 2003, “ci sono state più di 2100 gravi reazioni avverse ai vaccini pediatrici, alcune delle quali a rischio della vita”. L’articolo dice testualmente: “Si sospetta che quaranta bambini siano morti come conseguenza della somministrazione di routine dei vaccini negli ultimi 7 anni. Si sospetta anche che le vaccinazioni in età infantile abbiano lasciato due bambini con danni al cervello e che abbiano causato più di 1500 reazioni neurologiche, inclusi 11 casi di infiammazione cerebrale, 13 casi di epilessia e uno di coma”. Certo, un sospetto non è una certezza, e può anche darsi che gli eventi avversi abbiano una spiegazione diversa, ma perché tanta reticenza a rendere pubblici i dati? Dovrebbe essere cura e preoccupazione delle autorità sanitarie e pubbliche verificare scrupolosamente e con la massima trasparenza anche il minimo sospetto di correlazione fra i vaccini e eventuali danni alla salute, non importa quanto improbabile sembri.

In Italia il Codacons ha accusato l’AIFA di non aver pubblicato il report sui danni vaccinali dopo il 2013, finché non lo ha fatto il Codacons sul sito FB. Ora, dopo le polemiche, il rapporto integrale dell’AIFA per gli anni 2014-15 è disponibile su Internet a questo link, insieme ad una sintesi. Certo, l’AIFA sottolinea correttamente che le segnalazioni di effetti avversi non sono una prova di relazione causale fra essi e le vaccinazioni, ma quanto si va a fondo nella ricerca di queste relazioni causali? Molti genitori hanno la percezione che venga posta un’enfasi diversa sui vantaggi delle vaccinazioni (l’AIFA dichiara testualmente e iperbolicamente “In Italia ogni anno i vaccini salvano milioni di vite”) rispetto ai danni, che vengono per lo più minimizzati. Ma perché questi toni sempre enfatici e privi di misura, così poco scientifici, direi, come se gli Italiani fossero dei sempliciotti da imbonire? Una modalità comunicativa più equilibrata e obiettiva incoraggerebbe molti genitori a valutare in modo più positivo le vaccinazioni.

La questione, quindi, non è strettamente medica. È una questione soprattutto politica e comunicativa. Perché la trasparenza fa così paura? Perché i danni post-vaccinali – sia pure talvolta difficili da correlare causalmente alla vaccinazione – sono considerati meri effetti collaterali, quasi una triste necessità, mentre le complicanze delle patologie, a volte meno gravi, vengono dipinte con enfasi tragica? Uno Stato davvero imparziale non dovrebbe essere più preoccupato di questi dati, tra l’altro spesso sottostimati, che dei pochissimi casi di morte per morbillo? E in che cosa consiste questa così enfatizzata epidemia di morbillo in Italia? Forse gli Italiani meriterebbero un’informazione più completa, approfondita e razionale. Se guardiamo il grafico dell’Istituto Superiore di Sanità, emerge solo che il morbillo, come si sa da sempre, ha un andamento ciclico, ha cioè alti e bassi di virulenza. Guardando il rapporto RM News citato prima, si vede che nei primi mesi del 2017 c’è stato un picco di casi un po’ più elevato di quello del 2013, ma lontanissimo dai picchi epidemici di qualche decennio fa. Certo, va monitorato con attenzione, ma come si fa a parlare di epidemia?

E dal momento che gli Italiani non sono tutti degli stupidi irresponsabili, ignoranti e bisognosi di tutela come presuppone il tono autoritario e ricattatorio del Decreto Lorenzin, a queste domande si danno anche le risposte, giuste o sbagliate che siano. Certo l’atteggiamento del Ministro non aiuta.

Dal punto di vista economico, la vaccinazione obbligatoria rappresenta un costo per lo Stato (cioè per noi contribuenti) e una certezza di introiti per le case farmaceutiche. Il Piano Vaccini 2016-2018 prevede un ampliamento della copertura vaccinale per molte malattie e ne calcola il costo per le casse dello Stato:

“Il costo complessivo dei vaccini inseriti nel calendario vaccinale, secondo il prezzo corrente, a regime e con il raggiungimento dei tassi di copertura presentati più avanti viene stimato intorno a 620 milioni di euro. Tale cifra, d’accordo con i produttori, con il principio del partenariato pubblico-privato di rilevante contenuto sociale, e in piena trasparenza, potrebbe essere rivista secondo meccanismi negoziali che permettano, ad esempio, di diminuire il costo unitario del vaccino in proporzione al raggiungimento di tassi di copertura progressivamente più elevati. In tal modo, si raggiungerebbe il risultato di incentivare l’obiettivo di copertura anche con una diminuzione del costo di approvvigionamento del vaccino” (http://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?approfondimento_id=6868).

Sono queste le cifre?  In questo testo si ricorda che la vaccinazione costa, ma fa risparmiare lo Stato sulle cure (questo argomento è spesso ripetuto ad ogni obiezione sui costi); dovrebbe però, per correttezza, essere anche valutato quanto costano i danni vaccinali in termini economici ed umani. Un articolo del quotidiano La Verità ha al contrario messo in luce che, dopo l’introduzione dell’obbligo vaccinale, il prezzo dei vaccini è aumentato del 62% e la spesa complessiva è aumentata moltissimo (+130 milioni di euro in un anno). Come si fa a pensare che sia un caso?

Un ministro responsabile dovrebbe chiarire ai cittadini i costi dell’operazione obbligo vaccinale, visto che la pagano loro, e spiegare perché, se è il morbillo che ha avuto un incremento di casi, si decide di obbligare per decreto i genitori a sottoporre i figli a 12 vaccini, sia pure in preparati polivalenti; inoltre, dovrebbe dare completi ragguagli sul perché proprio quelli e non altri. Certo che se le informazioni sono del genere visto prima, si comprende perché i cittadini italiani siano meno fiduciosi rispetto agli altri europei nei confronti del loro governo e delle loro autorità sanitarie.

Il sospetto che i principali beneficiari dell’obbligo vaccinale (ripeto: non dei vaccini in sé, che a certe condizioni sono utilissimi) siano proprio le ditte produttrici e chi le favorisce appare perciò giustificato, data la manipolazione propagandistica dei dati da parte delle autorità, i toni da Santa Inquisizione nei confronti dei medici che osano avanzare qualunque tipo di dubbio non sui vaccini, ma sulla pratica vaccinale indiscriminata, come Roberto Gava, le minacce in stile mafioso che ricevono alcuni scienziati recalcitranti come Stefano Montanari, che mettono in dubbio la purezza e la sicurezza dei preparati vaccinali (ma perché invece non lo querelano, se dice il falso?), l’accanimento con cui vengono negati o minimizzati i danni vaccinali – e il diniego non è certo sintomo di atteggiamento scientifico.


In chi ha qualche anno in più è ancora vivo il ricordo della tangente pagata dalla GlaxoSmithKline nel 1991 all’allora Ministro De Lorenzo per rendere obbligatorio il vaccino antiepatite B, che da allora è rimasto obbligatorio (la sentenza di colpevolezza della Cassazione è del 2012). Non si tratta certo di un precedente rassicurante. A ragione o a torto, i conflitti di interesse esistono e non possono essere assiomaticamente negati. Perciò appaiono così odiose le sanzioni irragionevoli stabilite per i genitori che non intendano sottomettersi all’obbligo vaccinale e che, evidentemente, i nostri decisori politici non sono in grado di convincere. Forse i politici nostrani non percepiscono fino in fondo quanto sia profondo il risentimento degli Italiani verso una classe politica così scadente, priva di credibilità e in larga misura corrotta, ma pronta a bastonarli come degli Arlecchini qualunque.

Ma al di là degli interessi economici in gioco (che sono globali, ricordiamo, e riguardano 4 miliardi di persone in 5 anni), e perfino ipotizzando con la massima benevolenza che l’intenzione del Ministro sia pura ed abbia a cuore esclusivamente la salute dei bambini, la verità politica di questo decreto è che probabilmente sarà un boomerang per il governo e otterrà l’effetto contrario a quello voluto. Molti genitori, allarmati, si stanno già organizzando per resistere e praticare la disobbedienza civile. Il contenzioso giudiziario aumenterà a dismisura, a cominciare dallo strumento stesso del decreto-legge per una misura così ampia e ingiustificata. L’esperienza delle grandi democrazie europee ha già dimostrato che la persuasione è più efficace della coercizione in questo ambito. Non è con il dogmatismo intollerante della propaganda vaccinale senza se e senza ma che si otterrà di fare bella figura con i partner statunitensi e di mettere a tacere ogni dissenso. La realtà sociale è assai più complessa di come se la rappresenta la nostra ministra, nemmeno laureata, ma molto attaccata alle sue certezze, ed esploderà molto presto. Purtroppo, in mezzo ci andranno proprio i bambini, oltre alla fiducia dei cittadini nelle istituzioni, sia politiche sia sanitarie. Speriamo, a questo punto, anche il decreto con la sua imperiosa arroganza.

[continua]

L’obbligo vaccinale, ovvero: chi decide della salute dei bambini? [Parte 1]

Sulla questione dell’obbligo vaccinale appena imposto per decreto a tutti i bambini italiani per ben 12 diverse malattie si sta consumando una battaglia emotiva e poco trasparente. Come in tutte le questioni controverse, sulle quali non si esercitano liberamente le ragioni della scienza e la saggezza della riflessione ponderata, per via degli enormi interessi economici e delle pressioni ideologiche, la tendenza del conflitto è verso la polarizzazione delle posizioni e verso la contrapposizione radicale vaccinisti/antivaccinisti, che in nessun modo consente di sviscerare la complessità del problema.

I piani sui quali l’obbligo vaccinale – e non l’utilità o meno delle vaccinazioni, sia chiaro – può e deve essere considerato sono molteplici: uno filosofico-giuridico, uno politico-economico, uno storico-sociologico, uno medico-scientifico. Considerarne uno a scapito degli altri tre rende impossibile comprendere che cosa è in gioco veramente in questo scontro.

Cominciamo dal primo, che è anche a mio parere il più rilevante. Considerato dal punto di vista filosofico-giuridico, e più precisamente etico-giuridico, l’obbligo vaccinale ci pone di fronte ad una questione di vitale importanza per tutti noi: può lo Stato imporre ai cittadini un intervento sanitario universalmente obbligatorio contro la loro volontà? Può violare il principio dell’inviolabilità del corpo? E può fare questo sui bambini, per definizione soggetti deboli, sostituendosi alla volontà dei naturali tutori dei loro interessi, i genitori? E può irrogare una sanzione grave come la discriminazione dei bambini rispetto all’accesso di servizi essenziali quali l’asilo nido o la scuola per l’infanzia o la penalizzazione economica non progressiva ai genitori o addirittura la revoca della patria potestà?

È ovvio che il “può” va inteso nel senso di “ha il diritto”. Nel comune sentire, lo Stato ha il diritto di costringere quando è in gioco un bene maggiore, in questo caso la salute pubblica, in altri casi la sicurezza o l’interesse generale. Ma in uno Stato di diritto e soprattutto in uno Stato democratico il potere dello Stato è soggetto a pesanti limitazioni. Se così non fosse, il naturale squilibrio di forze fra Stato e cittadini trasformerebbe questi ultimi in sudditi senza diritti. In uno Stato democratico, la sovranità è dei cittadini, che la esercitano sulla base della Costituzione, la quale a sua volta è frutto di un patto, di un contratto bilaterale fra i cittadini e lo Stato. Lo Stato è al servizio dei cittadini, non viceversa; di per sé, lo Stato non è altro che l’espressione della comune appartenenza dei cittadini ad un unico corpo sociale.

Come in ogni faccenda complessa, è in gioco un bilanciamento di diritti e di doveri. I bambini hanno diritto all’integrità del loro corpo, alla salute, alle cure amorevoli e adeguate dei genitori, alla tutela da parte dello Stato. I genitori hanno il diritto di scegliere ciò che, in base alla loro visione del mondo, ritengono meglio per tutelare e proteggere i loro bambini. Hanno anche il dovere di prendersi cura adeguatamente dei figli. Solo nel caso in cui non siano in grado per incapacità manifesta o per abuso e trascuratezza grave, lo Stato ha il diritto e il dovere di intervenire nella prospettiva dell’interesse superiore del minore: non del minore in astratto, ma del bambino specifico, con nome e cognome e con una sua storia personale. Lo Stato ha il dovere di tutelare ogni singolo bambino di per sé, come titolare di diritti non comprimibili. Tali diritti sono codificati nei trattati internazionali e nei documenti di bioetica e rappresentano una conquista di civiltà irrinunciabile.

Nella Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia (CRC) sono indicati quattro principi generali, trasversali a tutti i principi espressi dalla CRC ed in grado di fornire un orientamento ai governi per la sua attuazione:

  • non discriminazione (art. 2), tutti i diritti sanciti dalla CRC si applicano a tutti i minori senza alcuna distinzione;
  • superiore interesse del minore (art. 3), in tutte le decisioni il superiore interesse del minore deve avere una considerazione preminente;
  • diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo (art. 6), non solo il diritto alla vita ma garantire anche la sopravvivenza e lo sviluppo;
  • partecipazione e rispetto per l’opinione del minore (art. 12), per determinare in che cosa consiste il superiore interesse del minore, il suo diritto di essere ascoltato e che la sua opinione sia presa in considerazione.

All’Art. 3, la CRC afferma: “Gli Stati, le istituzioni pubbliche e private, i genitori o le persone che ne hanno la responsabilità, in tutte le decisioni che riguardano i bambini devono sempre scegliere quello che è meglio per tutelare il loro benessere”. Si tratta quindi di determinare in che cosa consista il benessere del bambino.

Il Codice di Norimberga, redatto nel 1946 dopo i processi ai medici nazisti colpevoli di aver condotto esperimenti atroci su esseri umani, cercò di stabilire il confine (assai labile, come si accorsero i giudici) fra gli interventi leciti e quelli illeciti in ambito medico, soprattutto in ambito sperimentale. E la prima regola che venne individuata dai medici statunitensi incaricati della stesura fu la seguente:

«la persona coinvolta dovrebbe avere la capacità legale di dare il consenso, e dovrebbe quindi esercitare un libero potere di scelta, senza l’intervento di qualsiasi elemento di forzatura, frode, inganno, costrizione, esagerazione o altra ulteriore forma di obbligo o coercizione; dovrebbe avere, inoltre, sufficiente conoscenza e comprensione dell’argomento in questione tale da metterlo in condizione di prendere una decisione consapevole e saggia».

La World Medical Association ribadiva inoltre, nella Dichiarazione di Helsinki del 1964, il concetto che solo il consenso esplicito poteva giustificare moralmente la ricerca sui soggetti umani e che “nella ricerca medica gli interessi della scienza e quelli della società non devono mai prevalere sul benessere del soggetto“. Da queste riflessioni sono nati il consenso informato e la riflessione bioetica. Pur con differenze culturali e filosofiche, la bioetica – in particolare quella anglosassone – tende a considerare fra i principi irrinunciabili in ambito medico l’autonomia del paziente (ovvero la libertà di scelta), la beneficità (ovvero l’effettivo beneficio) e la non maleficità dell’intervento (il principio ippocratico primum non nocēre), la giustizia rispetto l’accesso alle cure.

Dai documenti di etica medica deriva un primo punto fermo: un intervento medico si giustifica solo nell’interesse esclusivo di chi lo riceve, solo con il suo consenso espresso, solo se non fa un danno superiore ai benefici che apporta, solo se arreca un beneficio al soggetto. Non si giustifica con un interesse superiore della ricerca scientifica e della società. La CRC pone inoltre come criteri irrinunciabili di ogni intervento la non discriminazione e la tutela del benessere del minore.

Il bambino ha diritto alla difesa della sua salute, che è il bene primario per ciascuno. Ma chi stabilisce in che modo tutelare la salute? L’unica risposta possibile è: i genitori. Sono loro legalmente ad esprimere il consenso alle cure mediche per il proprio figlio. Se non lo possono esprimere, viene meno il principio stesso del consenso informato e siamo di fronte all’arbitrio dello Stato. Uno Stato che si sostituisce ai genitori nello stabilire qual è il modo giusto di proteggere la salute del minore o di curarlo, nel caso che sia malato, sta trattando il genitore o come un incapace o come un criminale. Il compito dello Stato è di informare, educare, sostenere, affiancare un genitore per consentirgli di esercitare appieno la sua libertà educativa e di cura nei confronti del figlio, ma se lo Stato decide per lui, in assenza delle circostanze di necessità, urgenza e di grave manchevolezza di cui abbiamo parlato, allora non siamo più in democrazia. Forse a molti sfugge la gravità di questa imposizione: è un esproprio autoritario della libertà e della sovranità del cittadino nel decidere su una questione fondamentale quale la salute e il benessere dei propri figli. È lo Stato che decide in modo arbitrario che cosa è bene per tutti i bambini, indipendentemente dalle qualità genitoriali dei loro tutori.

Inoltre, se il bambino è sano e l’intervento medico non migliora il suo stato di salute, lo Stato non lo può imporre. Non spetta allo Stato sottoporre a trattamento sanitario obbligatorio un bambino sano. E nemmeno può violare il corpo del bambino, che è assolutamente indisponibile per lo Stato. L’articolo 32 della Costituzione è chiaro: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Che si tratti di un intervento medico e, nel caso estremo, di una violazione dell’integrità della persona è fuori discussione: un vaccino è un farmaco, e come tale ha effetti desiderabili ed effetti collaterali. Per somministrarlo occorre intervenire su un corpo senza il consenso di chi ne ha la titolarità (se il genitore non lo esprime), mediante la sospensione della potestà genitoriale. Data la delicatezza della materia, l’orientamento giuridico prevalente finora è stato infatti favorevole all’obbligatorietà, ma non alla coercibilità della vaccinazione.

Somministrare in modo indiscriminato grandi quantità di farmaci a soggetti sani, senza alcuna conoscenza preventiva dello stato di salute, di un’eventuale immunità preesistente, o di controindicazioni alla somministrazione non risponde né a criteri etici né a criteri scientifici. E non ha a che fare con l’utilità o meno dei vaccini. Un farmaco non è utile a prescindere da chi lo assume. Per fare un esempio, anche se gli antibiotici sono una benedizione per l’umanità, questa non è certo una ragione per somministrarli a tutti, anche a soggetti sani.

La Corte Costituzionale si è espressa più volte in merito all’obbligatorietà delle vaccinazioni, individuando in esse un vantaggio sia per il minore sia per la collettività: con la sentenza 23 giugno 1994 n. 258 ha chiarito che le leggi che impongono l’obbligo vaccinale non contrastano con l’art. 32 Cost., purché “il trattamento sia diretto non solo a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri; vi sia la previsione che esso non incida negativamente sullo stato di salute di colui che vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze che, per la loro temporaneità e scarsa entità, appaiano normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili; sia prevista, nell’ipotesi di danno ulteriore alla salute del soggetto sottoposto al trattamento obbligatorio − ivi compresa la malattia contratta per contagio causato da vaccinazione profilattica − comunque la corresponsione di un equo indennizzo in favore del danneggiato“. Nella stessa pronuncia, la suprema Corte ha aggiunto un’importante invito al legislatore “affinché, ferma la obbligatorietà generalizzata delle vaccinazioni ritenute necessarie alla luce delle conoscenze mediche, siano individuati e siano prescritti in termini normativi, specifici e puntuali, ma sempre entro limiti di compatibilità con le sottolineate esigenze di generalizzata vaccinazione, gli accertamenti preventivi idonei a prevedere ed a prevenire i possibili rischi di complicanze“.

Secondo la Corte, quindi, l’obbligo si giustifica a determinate condizioni, che sono appunto quelle che dovrebbero essere accertate. È evidente, infatti, che i danni vaccinali esistono e possono essere anche gravi, come testimoniano le numerose sentenze che impongono il risarcimento dello Stato ai bambini danneggiati in modo permanente dalle vaccinazioni. Non si può dare per scontato che esse costituiscano esclusivamente un vantaggio per il singolo e per la collettività. Un principio di cautela imporrebbe di verificare il rapporto costi-benefici caso per caso e vaccino per vaccino. Magari la vaccinazione si giustifica per alcune patologie e non per altre. Ne riparleremo più avanti.

Somministrare una grande quantità di farmaci per tutelare altri soggetti più vulnerabili è una violazione della Dichiarazione di Helsinki: nessuno può essere costretto ad un intervento medico potenzialmente dannoso per arrecare beneficio a qualcun altro. Tale principio è ribadito dalla Convenzione di Oviedo, recepita in Italia con legge n.145/2001: Articolo 2 – Primato dell’essere umano. L’interesse e il bene dell’essere umano debbono prevalere sul solo interesse della società o della scienza”.

Discriminare un bambino sano rispetto all’accesso ai servizi educativi sarebbe una violazione della Convenzione dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. Tra l’altro, sarebbe una discriminazione davvero paradossale e ingiustificata. A chi fa danno un bambino sano? Più che una misura preventiva, suona come un vero e proprio ricatto ai genitori. Obbligare a vaccinarsi in assenza di pericolo diretto dei soggetti interessati e in assenza di una grave epidemia in atto è una violazione del principio di non maleficità: poiché va bilanciato di caso in caso il rapporto costi-benefici di un vaccino, se non c’è beneficio diretto, ma è presente un danno anche solo potenziale, non si giustifica l’intervento, e comunque non può essere obbligatorio. Devono essere i genitori a prendersi la responsabilità di decidere, soppesando rischi e benefici.

Disporre un trattamento sanitario obbligatorio che non rechi un beneficio diretto al soggetto che vi è sottoposto (principio di beneficità) viola il principio di necessità e di urgenza e viola la Convenzione di Oviedo, che nel sommario iniziale recita testualmente: “La Convenzione consacra il principio che la persona interessata deve dare il suo consenso prima di ogni intervento, salvo le situazioni di urgenza, e che egli può in ogni momento ritirare il suo consenso. Un intervento su persone incapaci di dare il proprio consenso, per esempio su un minore o su una persona sofferente di turbe mentali, non deve essere eseguito, salvo che non produca un reale e sicuro vantaggio per la sua salute”.

Un farmaco si somministra a chi ne ha bisogno, secondo una valutazione in scienza e coscienza, non indiscriminatamente a tutti, perché così è evidente che, statisticamente, qualcuno ne riporterà dei danni anche gravi, e questo è sempre e comunque eticamente inaccettabile. Ogni bambino ha diritto soggettivamente alla sua integrità, alla sua salute, al suo benessere. Non è nemmeno togliendogli la patria potestà dei genitori o il reddito familiare che si favorisce il suo benessere. La sospensione della potestà genitoriale, che sembra introdurre un principio di coercibilità nell’obbligo vaccinale, è stata considerata illegittima da alcune sentenze, fra le quali il Decreto Corte di Appello di Ancona, Sezione minori, N. 1994 del 27.11.98

Riassumendo, possiamo concludere che

ammesso che i vaccini siano utili a prevenire il diffondersi di malattie contagiose ed epidemiche (cosa che deve essere adeguatamente dimostrata);

ammesso che siano sicuri, come sostengono molti medici (anche se non tutti) e le case farmaceutiche;

ammesso che sia dimostrata l’esistenza dell’effetto-gregge non solo per l’immunità naturale, ma anche per quella vaccinale;

ammesso che lo Stato possa, in particolari circostanze, disporre un trattamento sanitario obbligatorio, come previsto dall’art. 32 della Costituzione

tuttavia, dal punto di vista etico tale intervento obbligatorio si giustifica solo a condizione che

– ci sia un grave e immediato pericolo per la vita e la salute del minore (principio di gravità e urgenza),

– sia in corso un’epidemia che minaccia la salute pubblica (principio di emergenza),

– sia impossibile impedire in altro modo il contagio (principio di necessità),

– non sia violata l’integrità psicofisica della persona, che costituisce il limite invalicabile di ogni obbligo (principio di inviolabilità del corpo),

– sia un intervento compatibile con lo stato psico-fisico del minore (principio di personalizzazione),

– sia dimostrata l’incapacità genitoriale di esprimere un valido consenso, posto che il genitore è l’unico soggetto titolare del diritto di esprimerlo per conto del minore (principio di autodeterminazione).

In ogni caso, lo Stato deve garantire:

un dibattito scientifico aperto e sereno su vantaggi e danni da vaccinazione, nell’interesse dei cittadini e della scienza;

un costante e scrupoloso monitoraggio sugli effetti avversi delle vaccinazioni;

un’informazione corretta, trasparente e imparziale;

l’imparzialità rispetto ai portatori di interessi economici che possono trarre vantaggio da una decisione politica a danno anche solo potenziale della salute pubblica;

la piena assunzione di responsabilità rispetto ai danni che ne possono derivare alla salute del minore;

l’assoluta non discriminazione del minore o punibilità del genitore che rifiuti l’intervento. Un genitore scrupoloso, che soppesa con cautela la decisione di far vaccinare o meno il figlio, è soltanto un genitore responsabile.

Quella dell’autodeterminazione e del consenso informato è comunque la strada seguita dai 15 Paesi UE su 27 che non prevedono nessun obbligo vaccinale; esso resiste soprattutto nei Paesi dell’Est europeo: segno, probabilmente, nei Paesi privi di obbligo, di un rapporto governanti-governati più maturo, basato sulla fiducia, sul rispetto e sulla considerazione per la libertà dei cittadini – in ultima analisi, più democratico.

 [continua]