Il metodo scientifico è indubbiamente una delle più grandi conquiste dell’umanità. Grazie al pensiero critico della scienza si è messo in discussione il principio di autorità e si è preparata la strada ad una società democratica. Ma oggi si rischia di trasformare la scienza in quello che non è, ovvero un sapere autoritario e dogmatico. Uno sconcertante articolo di Nature del 2017 constata che il 70% o più delle ricerche pubblicate non è replicabile, e quindi non credibile in base al metodo scientifico.
Su questo argomento, e in generale sull’illusione dell’obiettività scientifica, ha scritto pagine molto riflessive e pacate Rupert Sheldrake, biologo all’Università di Cambridge (Seven Experiments that could changhe the world, New York, Riverhead, 1995, 2002, pp. 165-177). Cito in traduzione mia:
“Molti non-scienziati sono intimoriti dal potere e dall’apparente certezza della conoscenza scientifica. Altrettanto succede a molti studenti di materie scientifiche. I libri di testo sono pieni di fatti apparentemente incontestabili (hard) e di dati quantitativi. La scienza sembra supremamente oggettiva. Oltretutto, la credenza nell’obiettività della scienza è argomento di fede per molte persone oggi. (…) Questa immagine della scienza viene raramente discussa esplicitamente dagli stessi scienziati. Essa tende ad essere assunta implicitamente e data per scontata. Pochi scienziati mostrano grande interesse per la filosofia, la storia o la sociologia della scienza, e c’è poco spazio per questi argomenti nel fitto curricolo dei corsi di laurea in scienze. I più semplicemente danno per scontato che per mezzo del “metodo scientifico” le teorie possano essere testate oggettivamente da un esperimento in un modo che sia incontaminato dalle aspettative, dalle idee e dalle credenze personali degli scienziati. Gli scienziati amano pensare di se stessi di essere impegnati in una audace e impavida ricerca della verità.
Questa visione ora suscita un certo cinismo. Ma io penso che sia importante riconoscere la nobiltà di questo ideale. Finché l’impresa scientifica è illuminata da questo spirito eroico, c’è molto da lodarla. Tuttavia, in realtà la maggior parte degli scienziati è ora serva di interessi militari e commerciali. Quasi tutti perseguono carriere all’interno di istituzioni e organizzazioni professionali. La paura di un rovescio nella carriera, il rifiuto di articoli da parte di riviste scientifiche, la perdita di fondi, e la sanzione estrema del licenziamento sono potenti disicentivi ad avventurarsi troppo lontano dall’ortodossia corrente, almeno in pubblico. Molti non si sentono sicuri abbastanza da esprimere le loro reali opinioni finché non sono andati in pensione o hanno vinto un premio Nobel o entrambe le cose.
I dubbi popolari sull’obiettività degli scienziati sono largamente condivisi, per ragioni più sofisticate, da filosofi, storici e sociologi della scienza. Gli scienziati sono parte di più vasti sistemi sociali, economici e politici; essi costituiscono gruppi professionali con proprie procedure di accesso, pressioni dei colleghi, strutture di potere e sistemi di ricompensa. Essi lavorano per lo più nel contesto di paradigmi o modelli di realtà stabiliti. E anche nei limiti posti dal sistema di credenze scientifiche prevalente, essi non vanno in cerca di puri fatti per il loro interesse: essi fatto congetture o ipotesi su come stiano le cose, e poi le testano con un esperimento. Di solito questi esperimenti sono motivati dal desiderio di supportare un’ipotesi preferita o di respingere quella rivale. Ciò che si ricerca e perfino ciò che si trova è influenzato dalle proprie aspettative consce e inconsce”. (pp. 165-166).
Il discorso poi procede sui biases della ricerca, sull’autoinganno e sui problemi delle Peer review, compresa la selezione degli articoli, la replicabilità e la frode. Insomma, Nature ha scoperto l’acqua calda…