Si può parlare di spiritualità (laica) in politica? Ovvero: come decolonizzare le menti dall’ideologia neoliberista.

Ambrogio Lorenzetti, “Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo” (1338-39), conservato nel Palazzo Pubblico di Siena.

Senza le strade interiori dello spirito non si può camminare eretti e con dignità sulle strade esteriori del mondo (Ernst Bloch).

La riflessione svolta nei due precedenti articoli (La perversione neoliberista e la legge della “Buona Scuola” e Ce lo chiede l’Europa? Le politiche scolastiche e la Costituzione neoliberista) su neoliberismo e riforme della scuola ha messo in luce il complesso retroterra ideologico che ha governato le riforme della scuola in Italia dagli anni ’90 in poi, così come il processo della globalizzazione, della formazione dell’UE, delle politiche economiche e sociali ispirate all’austerity, alle privatizzazioni e allo “Stato minimo”.

Considerata con il senno del poi, la cosiddetta “fine delle ideologie”, seguita al crollo del comunismo sovietico, sembra per certi versi presentarsi come la fine del pluralismo delle idee, nel nome di un pensiero unico tanto più insidioso quanto meno percepito come ideologico.

Proprio la capacità mimetica del neoliberismo, che si presentò dagli anni ’70 e ’80 come un sapere scientifico, esposto sotto forma di complesse e apparentemente indiscutibili dimostrazioni matematiche, ne ha garantito la diffusione come sapere “oggettivo” e neutrale. In un mondo nel quale, in assenza di altri validi punti di riferimento, la scienza appare (più o meno ragionevolmente) l’unico sapere certo e l’unica via di accesso alla verità, le brillanti teorizzazioni di Friedman e colleghi potevano passare per verità assiomatiche.

Non si deve mai sottovalutare il potere dell’ideologia, che, come ci ha insegnato Marx, altera la percezione stessa della realtà, distorcendone senso e contorni e producendo una falsa coscienza. Il neoliberismo ha fatto dell’economia il perno immobile intorno al quale girano tutte le altre attività umane e il metro di giudizio di tutti i valori. Quanto ciò sia assurdo, appare chiaro non appena ci si rifletta con mente distaccata, ma proprio questo distacco è la condizione psicologica difficile da conquistare, immersi come siamo in un mondo simbolico interamente dominato e colonizzato da questa unilaterale visione del mondo.

Come per un pesce è difficile riconoscere di essere immerso nell’acqua, perché non conosce altre condizioni, per noi è difficile riconoscere di avere interiorizzato in profondità una concezione tanto malata e maligna del mondo e dei rapporti umani, finché non ne immaginiamo altre possibili. Liberarsene è un lavoro autenticamente spirituale, che richiede capacità di distacco, come si è detto, senso critico e differenti valori di riferimento. Se, come disse Margaret Thatcher, “l’economia è il mezzo; l’obiettivo è cambiare il cuore e l’anima”, è proprio dai sentimenti e dall’anima che dobbiamo partire per invertire la rotta.

Guardare con distacco e senso critico la torsione neoliberista che ha sfigurato il nostro vivere civile, snaturando i valori democratici, solidaristici e partecipativi alla base della Costituzione italiana del ’48 (prima delle successive modifiche peggiorative) richiede prima di tutto l’attitudine a vedere che cosa è cambiato rispetto al testo del ’48 e come è stata svuotata di contenuti la nostra bella Carta fondamentale della Repubblica, per mezzo di un vero e proprio colpo di stato strisciante e subdolo.

Con l’aiuto del costituzionalista Mauro Scardovelli, possiamo provare a ricostruire i primi articoli della Costituzione neoliberista realmente vigente, che non è quella scritta, ma quella tacitamente presupposta negli interventi dei politici, della Commissione europea, nei mass media e propagandata da decenni con uniforme e concorde ripetitività. Vi invito a confrontarla con il testo costituzionale del ’48.

1. L’Italia è una Repubblica oligarchica, fondata sulla proprietà e sull’iniziativa privata. La sovranità appartiene ai mercati, che la esercitano nelle forme e nei limiti della Costituzione, adeguata e interpretata alla luce dei Trattati Europei.

2. La Repubblica, una e indivisibile, aderisce alla Comunità economica europea, e favorisce tutte le cessioni di sovranità, monetaria, economica e finanziaria, necessarie alla creazione del mercato comune e della moneta unica.

3. In armonia con i Trattati Europei, la Repubblica attua la libera circolazione di capitali, merci, persone e servizi, e promuove le condizioni che rendono effettiva un’economia di mercato fortemente competitiva, funzionale all’incremento e alla concentrazione di produzione e ricchezza.

4. Fatta salva la stabilità dei prezzi, ovvero la bassa inflazione, e il pareggio di bilancio, la Repubblica, in cooperazione con gli altri membri dell’Unione, mira a favorire la piena occupazione, il progresso sociale e la tutela dell’ambiente.

Commento: il forte contenimento dell’inflazione (non oltre l‘1,5% in più rispetto ai paesi economicamente più forti dell’Unione), è obiettivo primario e non derogabile. Il livello di piena occupazione va inteso nei limiti di questa prescrizione. Ogni anno la Commissione Europea, organo non elettivo, stabilisce il livello minimo di disoccupazione compatibile con il detto obiettivo (nel 2015 era il 12% per l’Italia e il 20% per la Spagna). In altri termini, il modello socioeconomico Keynesiano, previsto nell’originario modello costituzionale, è abbandonato e sostituito con il modello socioeconomico neoliberista, sul quale si fonda la Comunità Europea.

5. La pace e la giustizia tra le nazioni, la protezione dell’ambiente e della famiglia, il diritto alla salute, all’istruzione, alla pensione, il diritto al lavoro, la tutela del risparmio popolare, sono in ogni caso subordinati agli interessi commerciali e finanziari, così come pattuito nell’ordinamento internazionale vigente. Le norme della Costituzione originaria, con esso contrastanti, sono implicitamente abrogate.

6. La Repubblica promuove una forza lavoro flessibile, adattabile alle esigenze delle imprese, in grado di rispondere ai mutamenti economici, al fine di realizzare gli obiettivi di cui sopra.

Commento:

La flessibilizzazione e la precarizzazione del lavoro sono gli strumenti necessari a perseguire le finalità dell’Unione che, in deroga al modello originario di Costituzione, considera primaria la tutela dei capitali rispetto alla tutela del lavoro. Cioè la tutela delle cose e della proprietà privata, rispetto alla tutela delle persone e del bene comune. Secondo il modello mainstream, la trasformazione dell’originario modello socioeconomico costituzionale Keynesiano del 1948, che prevedeva lo stato sociale, la protezione del lavoro, della salute, la scuola gratuita, la previdenza, si rende necessaria per allineare l’Italia e renderla competitiva nell’ambito dell’odierna forma di globalizzazione neoliberista. Compito dell’Unione è liberare le Costituzioni del dopoguerra, dagli elementi di socialismo, adatte alle condizioni storiche di allora, ormai superate, e incompatibili con le attuali condizioni del mercato globale.

I promotori di queste riforme, a loro avviso indispensabili, hanno assunto (come è noto in base a loro recenti esplicite dichiarazioni), la grave responsabilità storica di compierle in modo graduale, con attendismo, al di fuori del processo elettorale, cioè al di fuori del processo democratico, ben consci che il popolo non le avrebbe consentite.

Per la stessa ragione, per ottenere l’approvazione dei parlamenti nazionali, la formulazione degli attuali trattati europei è complicata, oscura e contraddittoria, praticamente incomprensibile. Ai pochi giuristi, competenti anche nel settore dell’economia, è chiaro che non si tratta di un cambiamento costituzionale, ma di un vero e proprio colpo di stato. Le modifiche apportate alla Costituzione del 1948, avvenute di fatto senza alcun serio dibattito parlamentare e pubblico, corrispondono ad una sostanziale abrogazione dei suoi principi ispiratori. Ovvero ad una sua decostituzionalizzazione. È stata cambiata la forma di Stato repubblicana che, in base all’art. 139, non è soggetta a revisione da parte di nessuna maggioranza.

(Mauro Scardovelli, Essenza della Costituzione originaria ed essenza della Costituzione neoliberista a confronto)

Solo sullo sfondo di una Costituzione del genere ci si può trovare in Europa a difendere un miserabile 2,4% di rapporto deficit/PIL, mentre la Costituzione originaria, quella vera, ci parla di sovranità popolare (anche monetaria), di diritti inviolabili, di bene comune, di eguaglianza sostanziale, di lavoro dignitoso e giustamente retribuito per tutti. Appare evidente a qualunque osservatore onesto che il pareggio di bilancio (art. 81, votato all’unanimità da Centro-Sinistra e Centro-Destra nel 2012 durante il governo Monti) è incompatibile con i contenuti della Costituzione, così come lo sono alcuni altri articoli che ne hanno storpiato la fisionomia originaria.

Lasciando un momento da parte il perché di tale scempio (le cui origini lontane e prossime sono spiegate benissimo nel volume Massoni di Gioele Magaldi e sintetizzate qui), in un movimento politico che vuole invertire la rotta che ha fatto fin qui andare alla deriva il nostro Paese e distrutto intere economie sul pianeta, bisogna chiedersi come se ne esce. Esiste una via d’uscita dalla caverna platonica, nella quale siamo incatenati come schiavi a guardare le ombre che si muovono sul fondo? Possiamo prospettare altri modi di concepire il nostro destino e quello del pianeta, mentre i media mainstream, la scuola, l’Università, la politica e le istituzioni sono quasi completamente colonizzate dal pensiero unico neoliberista che ci proietta in un mondo artificiale e darwiniano fatto di egoismo, di lotta per la sopravvivenza, di competizione, di durezza del vivere, di scarsità, di ingiustizia, di subordinazione di ogni diritto al mercato e di giochi a somma zero? Bastano le misure economiche, il braccio di ferro (vero o fasullo) sui parametri imposti dall’UE o qualche timido accenno alla ripresa della spesa sociale per riprenderci ciò che una classe dirigente eversiva ci ha tolto in questi tre decenni?

Penso francamente di no. Le vere rivoluzioni cominciano nelle coscienze. La sublime perfidia del neoliberismo sta nel farci perdere il senso della connessione: dentro di noi, fra corpo, anima e spirito; fuori di noi, con i nostri simili e con l’intero Universo. Mentre assolutizzava l’economia, l’ideologia neoliberista ha deliberatamente e sistematicamente annullato la dimensione spirituale dell’uomo, riducendolo alla dimensione materiale del vivere o, peggio, ad asservirsi al denaro. Benché la parola “spirito” sia polisemica e si presti a diverse interpretazioni, è alla dimensione spirituale (laicamente intesa) che si riferiscono valori come “libertà”, “solidarietà sociale”, “giustizia”, “bene comune”, “bellezza”, “felicità”, “conoscenza”, “saggezza”, “diritti”, “rispetto”, “consapevolezza”, “responsabilità”, “elevazione”, “cooperazione”, “creatività” eccetera.

Concentrandosi sulla ricchezza materiale come unico fine dell’esistenza, per i pochi che la possono ottenere, ci ha fatto dimenticare che esistono altre forme di ricchezza, infinitamente più appaganti e capaci di rendere la vita degna di essere vissuta: la ricchezza delle relazioni umane autentiche e profonde, della salute come completo benessere psico-fisico, della bellezza dei tesori artistici e naturali, della condivisione e della cooperazione, della nostra crescita umana e spirituale, dell’agire costruttivo nel lavoro, nella famiglia e nelle attività sociali, dell’armonia di una società meno lacerata da disuguaglianze, egoismi e sopraffazione, di un ambiente naturale pulito e rispettato.

Lungi dall’essere l’utopia di anime belle, i valori spirituali sono in primo luogo il salvagente che ci permette di non sprofondare nella melma della disperazione, della rassegnazione, della rabbia, della paura e della colpa; poi sono i criteri che orientano parole, pensieri e azioni verso un obiettivo preciso: riprenderci la nostra dignità di esseri completi e multidimensionali. Non c’è bisogno di uscire misticamente dal mondo per realizzarli. Essi sono dentro di noi e nella nostra storia e li troviamo concentrati nella Costituzione e in altri documenti ispirati come la Dichiarazione Universale dei diritti umani. Essi si fondano su una visione dell’uomo come essere sociale, empatico, cooperativo, creativo, amorevole, libero, consapevole e degno di rispetto. Certamente gli esseri umani possono essere egoisti, ostili, individualisti, ottusi, servili, violenti e inconsapevoli, ma non si tratta dell’unica opzione disponibile. Come gli schiavi nella caverna platonica, possiamo scegliere se rimanere incatenati o liberarci dalla degradazione che ci abbrutisce.

Ritengo perciò che la politica non debba sentirsi troppo a disagio a parlare di spiritualità, intesa come la connessione verticale con la parte migliore di noi stessi e con le dimensioni superiori dell’essere. Il primo lavoro da fare per disintossicare le menti, nostre e altrui, è cambiare il linguaggio. Il linguaggio programma il pensiero, come ci ha magistralmente insegnato George Orwell in 1984. Dobbiamo riconoscere e rifiutare la neolingua neoliberista che infarcisce i testi delle leggi, i documenti sulla scuola, gli articoli giornalistici, i programmi televisivi, i dibattiti politici, i discorsi comuni. Dovremmo criticarla, contestarla, protestare quando la incontriamo (alla radio, alla TV, nei discorsi quotidiani) e difendere lo spirito della nostra Costituzione con le unghie e con i denti, ogni giorno.

Dobbiamo poi riconoscere la menzogna che ci rende schiavi da decenni: che, come Italiani, siamo poveri, spendaccioni, corrotti, inaffidabili, incapaci, soli, colpevoli. Disponiamo di tesori immensi di bellezza e di genialità, abbiamo molte risorse creative e imprenditoriali, abbiamo una tradizione di solidarietà e di Stato sociale e non siamo affatto soli, se smettiamo di crederlo e uniamo le forze per rovesciare l’oppressione oligarchica che ci schiaccia.

Bisogna ripartire dalla scuola e dalla cultura, i due capitoli più intenzionalmente e vergognosamente trascurati negli investimenti pubblici dai governi pilotati dalle élites neoaristocratiche, mentre costituirebbero la principale risorsa umana ed economica di questo straordinario Paese. Ci sono voluti più di trent’anni per asfaltare la scuola pubblica e trasformarla nel guscio vuoto che è l’istruzione privatizzata, standardizzata, aziendalizzata e senza cultura di adesso, che è il risultato della stagione interminabile di tagli e stravolgimenti sostanziali mascherati da riforme. Ce ne vorranno altrettanti per riportarla ai valori della Costituzione, ma si potrà farlo solo se si percepisce chiaramente il degrado che essa ha subito sotto lo sguardo distratto dei cittadini. Come Movimento metapartitico, dovremmo fare ciò che l’attuale governo non ha capito, forse per mancanza di acume analitico o per mancanza di autentica sostanza politica, e cioè riportare i bisogni veri della scuola e delle generazioni future in testa al dibattito pubblico, perché solo da lì passerà un cambiamento autentico di prospettiva.

Il nostro immenso patrimonio culturale merita ben altra considerazione e lungimiranza. Non è ammissibile che siano senza lavoro o in condizione di assurda precarietà tanti giovani preparati, creativi e amanti della bellezza che ci circonda ovunque, mentre la nostra più grande ricchezza degrada e va in rovina per mancanza di cura. Non ci sarà futuro per noi senza un’istruzione di qualità e senza un adeguato investimento in cultura.

Non basterà l’economia a salvarci, se perderemo di vista la nostra identità storica e il senso stesso del vivere civile. Ci servono perciò idee lungimiranti e uomini che le incarnino con passione disinteressata e profonda connessione spirituale con ciò che ci rende migliori. Come scrisse con ragione Max Weber (La politica come professione),

Si può dire che tre qualità sono soprattutto decisive per l’uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza.

Dobbiamo riuscire a guardare lontano, nella direzione indicata da Max Weber, da Ernst Bloch e da tanti grandi uomini che, senza retorica, ma con grande consapevolezza, ci hanno già tracciato la strada.

Ce lo chiede l’Europa? Le politiche scolastiche e la Costituzione neoliberista

Dopo aver analizzato la fondamentale ispirazione neoliberista della legge sulla Buona Scuola (La perversione neoliberista e la legge della “Buona Scuola”), occorre ora comprendere da dove arrivi questa impostazione ideologica.

Sarebbe un errore pensare che la curvatura in senso neoliberista impressa alla scuola italiana negli ultimi 20 anni sia una scelta autonoma dei politici nazionali. È certamente una loro responsabilità ed un effetto della loro ignavia, ma l’origine della scuola neoliberista è da ricercarsi nel modello di Europa che è stato realizzato a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso. Nei trattati europei – il Trattato sull’Unione europea (TUE), del 1986, confluito nel Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE), del 2007 – non si parla di una politica europea dell’istruzione. L’Articolo 165 del TFUE (ex articolo 149 del TCE) afferma al comma 1:

L’Unione contribuisce allo sviluppo di un’istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, sostenendo ed integrando la loro azione nel pieno rispetto della responsabilità degli Stati membri per quanto riguarda il contenuto dell’insegnamento e l’organizzazione del sistema di istruzione, nonché delle loro diversità culturali e linguistiche.

Non si parla, cioè di un indirizzo comune fra gli Stati europei, ma di una generica collaborazione fra Stati con completa autonomia in materia di istruzione. L’idea di imprimere una direzione comune alle politiche scolastiche matura al di fuori delle istituzioni europee, in alcuni circoli privati di industriali.

Se si vuole situare la nascita di una politica comune in Europa non è alla Commissione europea, al Consiglio dei ministri e ancora meno al Parlamento europeo che dobbiamo guardare quanto, piuttosto, alla potente lobby padronale della Tavola Rotonda Europea degli industriali (ERT). Creato nel 1983, questo gruppo di pressione riunisce una quarantina tra i più potenti dirigenti industriali europei, come Peter Brabeck (Nestlé), Paolo Fresco (Fiat), Leif Johansson (Volvo), Thomas Middelhoff (Bertelsmann), Peter Sutherland (BP) o Jürgen Weber (Lufthansa). Il loro lavoro comune consiste nell’analizzare le politiche europee nell’ambito dei diversi settori e nel formulare raccomandazione corrispondenti ai propri obiettivi strategici. Alla fine del 1989 un «gruppo di lavoro educazione» dell’ERT pubblica un rapporto intitolato «Educazione e competenza in Europa». Questo sarà il primo di una lunga serie di documenti ad affermare «l’importanza strategica vitale della formazione e dell’educazione per la competitività europea» e a perorare «un rinnovamento accelerato dei sistemi d’insegnamento e dei loro programmi».

In particolare vi si legge che «l’industria non ha che un’influenza molto debole sui programmi impartiti», e che gli insegnanti hanno «una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari e della nozione di profitto», che «non comprendono i bisogni dell’industria» [ERT 1989]. Comunque, insiste la Tavola Rotonda, «competenza ed educazione sono fattori di riuscita vitali». In conclusione, la lobby padronale suggerisce di «moltiplicare i partenariati tra le scuole (e) le imprese». Invita gli industriali a «prender parte attiva allo sforzo educativo» e chiede ai responsabili politici «di coinvolgere le industrie nelle discussioni concernenti l’educazione» [ERT 1995].

La Tavola Rotonda rimprovera anche che «nella maggior parte d’Europa, le scuole (siano) integrate in un sistema pubblico centralizzato, gestito da una burocrazia che rallenta la loro evoluzione o le rende impermeabili alle domande di cambiamento provenienti dall’esterno» [ERT 1995]. I datori [di lavoro] reclamano dei lavoratori «autonomi, in grado di adattarsi ad un continuo cambiamento e di accettare senza posa nuove sfide» [ERT 1995].

[Nico Hirtt, L’Europa, la scuola e il profitto. Nascita di una politica educativa comune in Europa, http://www.edscuola.it/archivio/ped/europa_scuola_profitto.htm, traduzione di Paola Capozzi]

Troviamo qui la retorica che accompagnerà tutti i documenti europei successivi: la scuola è finalizzata all’economia e al lavoro, è al servizio dell’industria, coinvolge gli imprenditori nello sforzo educativo, è orientata alla competizione e al profitto, deve rinnovarsi velocemente, deve formare lavoratori autonomi e flessibili, sempre pronti ad adattarsi ai cambiamenti (senza gravare per la formazione sulle imprese) e impegnati nell’educazione permanente.

Un decennio dopo la creazione dell’ERT, nel 1992, il Trattato di Maastricht affida alla Commissione europea (organo non elettivo, ricordiamolo) il compito di delineare una politica europea dell’istruzione:

l’articolo 126 del Trattato di Maastricht accorda per la prima volta alla Commissione europea competenze in materia di insegnamento. A tal fine viene creata la DGXXII, la Direzione generale dell’Educazione, della Formazione e della Gioventù, diretta dalla socialista francese Edith Cresson. Si tratta di una sorta di «ministero» europeo dell’Educazione. Mme Cresson mette rapidamente in azione un «gruppo di riflessione sull’Educazione e la formazione» sotto l’egida del prof. Jean-Louis Reiffers. Dopo aver direttamente partecipato all’elaborazione del Libro Bianco «Insegnare e imparare: verso la società cognitiva», tale gruppo, nel 1996, esprime le proprie raccomandazioni. Si legge che «è adattandosi alle caratteristiche dell’impresa dell’anno 2000 che i sistemi d’educazione e di formazione potrebbero contribuire alla competitività europea e al mantenimento dell’occupazione.» [REIFFERS 1996]. (Ibid.)

La Commissione europea, insomma, mette nero su bianco le indicazioni degli industriali. Emergono continuamente come finalità dell’istruzione l’adattamento alle esigenze delle imprese, l’occupazione e la competitività. Nel 2000, a Lisbona, si esalta l’e-learning come nuova frontiera dell’insegnamento e si tracciano gli obiettivi economici della futura “società della conoscenza”:

L’idea madre, l’ideologia fondatrice di questa politica educativa comune, è riassunta come segue nella maggior parte di questi documenti: «l’Unione europea si trova di fronte ad una svolta formidabile indotta dalla mondializzazione e dalle sfide relative a una nuova economia fondata sulla conoscenza». Da quel momento l’insegnamento europeo deve piegarsi ad un «obiettivo strategico» principale: aiutare l’Europa a «diventare l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica duratura» [CCE 2001]. (Ibid.)

I cardini delle politiche europee (della Commissione, beninteso) per la scuola sono quindi perfettamente collocabili nel quadro dell’ideologia neoliberista: poiché tutta la realtà umana va guardata esclusivamente da una prospettiva economica, la competizione economica è il fine dell’istruzione. Appare quasi superfluo osservare che questo modo di intendere l’istruzione è lontanissimo dalla visione della scuola come organo costituzionale, che forma uomini e cittadini alla vita democratica e trasmette la cultura da una generazione all’altra, quale è delineata dalla Costituzione italiana del ‘48.

Il virus neoliberista penetra in ogni meandro del linguaggio dei documenti europei, contaminando alla radice tutto ciò che nella Costituzione parla di cultura, solidarietà, cooperazione, inclusione, partecipazione democratica, diritti, uguaglianza sostanziale.

Si parla di competenze professionali (nelle nuove tecnologie informatiche, nelle lingue, nello spirito d’impresa, nella pluridisciplinarietà) e sociali («fiducia in se stessi, indipendenza, attitudine ad assumersi rischi» CCE 2000-b), di formazione permanente (sviluppando le competenze di base e la capacità di imparare e facendo così risparmiare le imprese sulla formazione), di alfabetizzazione informatica ed e-learning, di deregolamentazione e decentramento dei sistemi di istruzione nazionali, per renderli “flessibili” e metterli in concorrenza fra loro, di partnerariato con le imprese («Gli istituti scolastici, i centri di formazione e le università dovrebbero essere aperti sul mondo: è opportuno assicurare i loro legami con l’ambiente locale, con le imprese e con i datori di lavoro in particolare, per migliorare la comprensione dei bisogni di questi ultimi e accrescere in questo modo l’occupabilità dei discenti» [CCE 2001]), di diversificazione dell’offerta, per venire incontro a bisogni diversi e «creare sistemi elastici di validità dei titoli» [Présidence du Conseil européen, 2000] (ovvero, indebolire il valore legale del titolo di studio, per aumentare la flessibilità e ridurre le tutele), di mobilità degli studenti, ottimo alibi per l’armonizzazione dei percorsi di studi e per un controllo europeo dell’insegnamento, di cittadinanza e impegno sociale (obiettivo che però poi tende ad indebolirsi nei documenti successivi) e di lotta all’esclusione, da attuare in tre modi: la sponsorizzazione delle scuole da parte di imprese, le convenzioni d’inserimento scuola-impresa (ecco lì l’alternanza scuola-lavoro), l’attuazione di tecnologie educative di punta [CCE 1995].

In un contesto di feroce competizione economica e di continua innovazione tecnologica, se la scuola è finalizzata all’impresa si producono due conseguenze: la prima è che diventano necessarie figure di professionisti ad alta specializzazione tecnologica, la seconda è che la precarizzazione del lavoro aumenta la richiesta di personale a bassa qualifica e con contratti a termine. Il mondo economico neoliberista richiede una scuola duale, nella quale gli estremi si allontanano sempre di più. Il dualismo formativo si accompagna alla terza conseguenza della competizione economica: la riduzione della spesa sociale come conseguenza della riduzione della pressione fiscale richiesta dalle imprese, per sostenerle nella competizione globale (“defiscalizzazione competitiva”). La scuola neoliberista è competitiva e ridotta all’essenziale e convive con una pluralità di enti privati che erogano formazione. Così anche l’insegnamento diventa un mercato e la deregulation coinvolge l’istruzione:

Per la Tavola Rotonda degli Industriali, « la resistenza naturale dell’insegnamento pubblico tradizionale dovrà essere superata attraverso l’utilizzo di metodi che combinano l’incoraggiamento, l’affermazione di obiettivi, l’orientamento verso l’utente e la concorrenza, soprattutto quella del settore privato » [ERT 1989]. (Ibid.)

Di qui l’insistenza sulle competenze, anziché sulle conoscenze e sulla cultura:

Lo scivolamento dei saperi verso le competenze è spiegato quindi non da un sussulto d’innovazione pedagogica, come si potrebbe ritenere, ma essenzialmente da una volontà di adeguamento della mano d’opera ad un ambiente di produzione caotico e dualizzato. Per quel 20-25% di manodopera che occuperà i posti a un livello molto alto di qualificazione, i saperi scolastici sono per lo più obsoleti. Per il 40- 50% dei posti a livello di qualificazione molto basso, sono superflui. Dal che la volontà di concentrare la formazione su quelle competenze di base comuni a tutti: lettura, scrittura, calcolo, alfabetizzazione informatica, adattabilità, capacità di risolvere problemi, competenze sociali, etc… (Ibid.; corsivo mio)

Ecco spiegato perché il governo Berlusconi, con la Ministra dell’Istruzione Letizia Moratti, si pose dal 2001 come obiettivi il ridimensionamento del ruolo dello Stato nell’ambito dell’istruzione e la concorrenza fra scuola pubblica e privata; la riduzione della spesa per l’istruzione, diminuendo le risorse, il numero dei docenti, delle ore di scuola, in particolare il tempo prolungato e il tempo pieno; il mantenimento del sistema scolastico tradizionale, rigidamente costituito in ordinamenti separati (legge delega n.53 del 2003, solo parzialmente applicata per l’opposizione serrata dei docenti), con la scelta precoce della scuola superiore a 13 anni; la riduzione delle ore di lezione a 27 settimanali; il ritorno al maestro unico di ottocentesca memoria (tutor); l’anticipo della frequenza nella scuola d’infanzia; la progressiva sparizione del tempo pieno; nuovi programmi che, allegati alla legge, diventavano obbligatori, in palese contrasto con la norma, ancora vigente, sull’autonomia scolastica; la creazione di un sistema secondario duale, con la rigida separazione fra i licei, sotto il controllo dello Stato, e gli istituti tecnici e professionali, affidati alle Regioni (D. Lgs. n. 226 / 2005).

Ed ecco l’origine del patetico slogan di quegli anni, le tristemente famose “tre ‘i’” della Moratti: Inglese, Informatica e Impresa. In queste tre parole si sintetizza un intero programma politico europeo, imprigionato dalla retorica neoliberista, e la fine della scuola come organo costituzionale, produttrice di cultura, di cittadinanza democratica e di uguaglianza sostanziale di cui parlava il padre costituente Piero Calamandrei.

È lo stesso paradigma che porta qualche anno dopo il Ministro dell’Economia Tremonti e la Ministra dell’Istruzione Maria Stella Gelmini (altro governo Berlusconi) ad una pseudo-riforma (legge 133/2008) che ha come unico criterio il massiccio de-finanziamento della scuola pubblica, già intrapreso da Letizia Moratti. Più che di una riforma, si tratta di una scientifica e draconiana amputazione della scuola pubblica a fini di bilancio e – meno dichiarato – di indebolimento del sistema pubblico di istruzione, che da allora agonizza in mezzo a ristrettezze infinite.

In pochi minuti di Consiglio dei ministri, nel luglio 2008 Tremonti ottiene senza battere ciglio 8 miliardi di euro di tagli alla scuola sui 40 del bilancio complessivo. Nessun comparto pubblico verrà devastato con altrettanta determinazione:

  • 87.000 insegnanti in meno (licenziati in tronco, perché precari), 44.000 ATA (amministrativi e bidelli) in meno, aumento del numero degli alunni per classe, con classi di 30-40 alunni, riduzione del numero di ore delle materie, taglio del tempo pieno e dei moduli alla scuola primaria (con conseguenze gravi soprattutto al Sud nelle terre di mafia), taglio dei laboratori ai tecnici e ai professionali, saturazione delle cattedre a orario pieno (con conseguente discontinuità didattica), aumento del precariato, blocco delle assunzioni per concorso e delle carriere dei docenti, revisione al ribasso dei programmi, con la neutralizzazione di ogni prospettiva critica e con l’indebolimento massiccio dello studio della storia;
  • ritorno alla scuola ottocentesca con il maestro unico nella scuola primaria, il ritorno dei voti numerici, abrogati nel 1977, e riordino della scuola superiore basato sulla Riforma Moratti, con la sua rigida separazione ordinamentale, ignorando i frutti positivi delle sperimentazioni degli anni ‘90;
  • riduzione drastica dei fondi alle scuole, che minaccia il principio di gratuità dell’istruzione (per sopravvivere, le scuole chiedono contributi sostanziosi alle famiglie).

Nonostante una fortissima protesta nel Paese, che raccoglie centinaia di movimenti spontanei di docenti, studenti e genitori, organizzazioni sindacali, prese di posizione politiche, la “riforma” viene condotta a termine senza alcun cedimento, con un atteggiamento autoritario e sprezzante che non ha eguali nella storia repubblicana. Gli effetti non tardano a farsi sentire:

  • l’autonomia scolastica viene fiaccata dalla mancanza di fondi;
  • vengono cancellate tutte le compresenze, utili per i progetti di recupero e integrazione scolastica;
  • il tempo pieno e la specializzazione dei docenti nei moduli, fiore all’occhiello della scuola primaria, vengono ridimensionati o cancellati (il tempo pieno praticamente sparisce al Sud), lasciando il posto al maestro solo e tuttologo (più che unico), allo spezzatino didattico (suddivisione di parti di orario fra diversi docenti per coprire i buchi di orario nelle classi), alle classi-pollaio, all’impossibilità di garantire il servizio di pre-scuola e a volte la stessa vigilanza degli alunni per carenza di bidelli;
  • l’insegnamento dell’inglese nella scuola primaria cessa di essere affidato ai 9000 docenti specialisti con formazione specifica in Lingue, per essere assegnato alle docenti di classe dopo 30 ore di formazione;
  • gli istituti tecnici e professionali perdono gran parte delle ore di laboratorio;
  • i licei si vedono ridurre le ore di scuola; alcune materie, come la storia e la filosofia, vengono ridotte nel monte-ore, con modifiche alla distribuzione della materia nei cicli di scuola e nelle classi della secondaria superiore che rendono impossibile trattare il Novecento, che resta quindi solo sulla carta delle Indicazioni Nazionali;
  • le sperimentazioni più moderne, capaci di favorire un pensiero critico e complesso, come il Liceo delle Scienze sociali, vengono sostituite da percorsi di studio molto meno consistenti dal punto di vista culturale e svuotati di ogni potenziale critico, come avviene con il Liceo delle Scienze umane, che ripropone, con nome diverso ma eguale ideologia di fondo, il vecchio Istituto Magistrale di gentiliana memoria, una sorta di liceo femminile di serie B.

Nella cronica mancanza di fondi, le scuole vanno avanti di emergenza in emergenza, attingendo ai contributi semivolontari delle famiglie e al volontariato dei docenti, che continuano a fare le stesse cose di prima o gratis o con un compenso da caporalato di Stato.

Questo il quadro desolante nel quale si inserisce la Buona Scuola di Renzi a completare l’opera. La perversione ideologica che sostiene questa visione stravolta ed eversiva della scuola democratica consiste nello spacciare per positivo e vantaggioso proprio ciò che toglie alle future generazioni ogni speranza di riscatto umano e sociale.

L’ossessivo mantra della formazione per il lavoro, della competizione, della centralità delle nuove tecnologie (TIC), del cambiamento a tutti i costi, della partecipazione delle imprese nei programmi e nella didattica, per esempio attraverso l’alternanza scuola-lavoro e il finanziamento privato della scuola pubblica, del rinnovamento dei metodi di insegnamento a favore dello sviluppo delle competenze, dell’educazione permanente, rappresentano il belletto con il quale si maschera una realtà sociale data per scontata e immodificabile, fondata sul profitto ad ogni costo, sulla subalternità di ogni valore al denaro, sullo sfruttamento del lavoro, sul controllo delle coscienze, sull’addestramento di una manodopera docile e complice del proprio asservimento, sul furto di cultura e di identità, sull’impoverimento del sapere.

Negli anni, il mantra si ripete sempre uguale. Questo dice, per esempio, il Progetto dell’UE per la modernizzazione dell’istruzione superiore (COM/2011/567) del 2011:

L’insegnamento superiore incrementa il potenziale individuale e deve dotare i diplomati delle conoscenze e delle competenze trasferibili essenziali che consentiranno loro di riuscire ad ottenere posti altamente qualificati. Tuttavia, i programmi d’insegnamento reagiscono spesso con lentezza all’evoluzione delle esigenze dell’economia in generale e non riescono ad anticipare le carriere del futuro, né a contribuire a modellarle; i diplomati fanno fatica a trovare un impegno di qualità che sia conforme ai loro studi. Associare i datori di lavoro e le istituzioni del mercato del lavoro alla definizione e alla realizzazione dei programmi, sostenere gli scambi di personale e introdurre l’esperienza pratica nei corsi può aiutare ad adattare i programmi di studio alle necessità attuali e future del mercato del lavoro, favorendo l’occupabilità e lo spirito imprenditoriale. Un migliore controllo da parte degli istituti d’istruzione dei percorsi di carriera dei loro ex studenti può fornire importanti informazioni sull’elaborazione dei programmi e migliorare la loro pertinenza. (corsivo mio)
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX:52011DC0567

Alla persona comune, può sembrare lodevole che la scuola fornisca competenze spendibili nel mercato del lavoro e diffonda l’uso delle tecnologie digitali, ma questa convinzione si fonda su un colossale inganno: un sapere funzionale all’economia perde infatti ogni funzione emancipante e priva gli studenti della creatività, del pensiero critico, del senso della propria libertà interiore e civile che rende possibile la consapevolezza, la ribellione e la costruzione di un mondo migliore. Alla lunga, mina il senso stesso dell’identità culturale di un popolo e produce lavoratori standardizzati, flessibili, senz’anima e disposti a consegnare le loro precarie esistenze ad una globalizzazione che segue unicamente la legge del mercato. Il nemico della scuola neoliberista non è l’ignoranza, ma la democrazia.

Il confronto fra il dettato costituzionale, che ci descrive il dover essere della scuola democratica, e l’implicita costituzione neoliberista, che invece è a fondamento della scuola reale, frutto del colpo di mano della burocrazia europea e degli industriali, sarà oggetto di ulteriore riflessione.

[continua]

La perversione neoliberista e la legge della “Buona Scuola”

“L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”

(Margaret Thatcher, intervista a “The Sunday Times”, 1° maggio 1981)

Non credo faccia male riparlare ogni tanto di neoliberismo. Per quanto lo si evochi spesso nelle nostre discussioni politiche, è difficile coglierne subito tutte le profonde e sottili implicazioni. A livello di teorie economiche, sappiamo tutti all’incirca quali ne siano la storia e i princìpi fondamentali: nato in circoli accademici ristretti, lautamente foraggiati per contrastare il mainstream economico keynesiano, la teoria economica neoliberista finisce con il diventare in pochi anni, fra gli anni ‘70 e ‘80, la visione dominante dell’economia, grazie agli economisti della Scuola di Chicago Friederich von Heyek e Milton Friedman, allievo di von Heyek, e ai loro allievi e collaboratori. Le sue applicazioni più note sono quelle di Augusto Pinochet in Cile, di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli USA.

Fondato su una visione assiomatica (ovvero indimostrabile) e ideale del mondo economico come di una realtà perfettamente ordinata e regolata da leggi “naturali”, al di fuori di ogni intervento regolatore dello Stato, il neoliberismo, estremizzando la teoria della “mano invisibile” di Adam Smith, postula la spontanea diffusione della ricchezza e del benessere come conseguenza “naturale” dell’assenza di ogni vincolo economico, giuridico, ambientale, politico, sociale all’egoistico perseguimento del profitto. Si tratta di un dogma che non ammette smentite, poiché l’idea della capacità dei mercati di autoregolarsi viene assunta come principale e indiscutibile legge dell’economia e qualunque fatto che la contraddica, quale la disoccupazione, l’aumento dell’inflazione, l’arresto della crescita, viene attribuito dalla teoria esclusivamente all’insufficiente libertà del mercato.

Per autoconvalida, quindi, la ricetta è sempre “meno Stato, più mercato” (salvo quando, in modo contraddittorio, si chiede che lo Stato intervenga ad attuare politiche pro-cicliche di austerity o a proteggere il mercato interno dalla concorrenza estera, per esempio). In questo senso, la teoria accademica diventa, nelle mani dei politici e dei potentati economici internazionali, una ideologia totale, intendendo con questo termine una produzione intellettuale sostanzialmente falsa e inautentica, che mira a dare ordine alla società e ad orientarne l’evoluzione storica, che è incorreggibile e che pretende di essere universale e globale, ovvero di dire tutto l’essenziale sull’uomo, sotto qualunque cielo e in qualunque circostanza.

Le ricette neoliberiste in economia sono principalmente tre: deregulation (ovvero assenza di regole che limitino l’acquisizione di profitti e la circolazione dei capitali), privatizzazioni (sulla base dell’assioma che il privato è più efficiente del pubblico) e riduzione della spesa sociale, per evitare l’”inquinamento” dello Stato nel mondo perfetto dei mercati.

A questa visione discutibile e astratta dell’economia, strumentale allo spostamento di ricchezza dai poveri ai ricchi e responsabile dell’aggravarsi della diseguaglianza, della miseria e della disperazione, laddove essa è stata applicata in modo inflessibile (come spiega molto bene il premio Nobel Joseph Stiglitz nel saggio La globalizzazione e i suoi oppositori), si accompagna, nella realtà storica del processo di globalizzazione, anche e soprattutto una visione distorta dell’uomo e della vita, una vera e propria perversione antropologica, che si insinua nelle coscienze, nelle famiglie, nelle comunità e che distrugge in profondità la spontanea propensione umana alla cooperazione, all’altruismo e all’empatia.

In questa visione, esiste solo il singolo, che persegue avidamente e in modo aggressivo il suo utile egoistico; la vita è una lotta per la sopravvivenza nella quale emerge chi vince nell’incessante competizione per l’accaparramento di beni finiti; l’altro essere umano è una minaccia costante al proprio benessere; il valore di ogni relazione ed esperienza umana si misura con il denaro ed è quantificabile in termini economici; non esistono limiti etici al diritto di trarre profitto dalle proprie attività, visto che per sgocciolamento (trickle down) la ricchezza accumulata dai vincenti porterà comunque benessere a tutti; lo Stato che spende per i servizi sociali è vizioso e il debito pubblico è una sorta di peccato originale che richiede un’espiazione collettiva; i mercati sono l’unico Dio a cui essere sottomessi, senza remissione; la propria felicità si persegue a danno della felicità altrui: mors tua, vita mea, in un eterno gioco a somma zero, in cui la miseria e la sofferenza prodotte sono un male necessario per consentire la crescita indefinita, unico fine dell’attività economica.

Questa deriva ideologica del neoliberismo è ben riassunta dal famoso aforisma di Margaret Thatcher: “Non esiste una cosa chiamata società, ci sono solo individui e famiglie”. Le idee di vita associata, di solidarietà sociale e di beni comuni e inalienabili sono estranee a questa visione del mondo. Tutto è quantificabile, alienabile e privatizzabile; tutto è subordinato al perseguimento dell’interesse privato e lo Stato non ha alcun ruolo nel mediare fra interessi contrapposti, anche quando i costi umani sono altissimi.

Si dice, con una certa ragionevolezza, che il neoliberismo come dottrina accademica non implichi tutte queste sovrastrutture ideologiche e che Von Heyek, Friedman e colleghi non erano così dogmatici. In effetti, qui non stiamo parlando delle teorie economiche in quanto tali, ma del modello di essere umano che esse sottendono, più o meno implicitamente, e che guida la conseguente azione politica. Stiamo parlando cioè di un fenomeno di egemonia culturale, nel senso descritto da Antonio Gramsci, ovvero di un pensiero che diventa dominante in un momento storico e consente ai gruppi al potere di esercitare una forma di controllo sulle persone, grazie al fatto che esso viene assunto nelle pratiche sociali, diffuso costantemente e interiorizzato. Questo pensiero egemonico sostituisce una visione del mondo ad un’altra e colonizza le menti, rendendo difficile uscire dal frame, dallo schema interpretativo imposto.

Per averne un saggio, basti leggere una riflessione di Gary Becker, l’allievo di Friedman che coniò l’espressione capitale umano (anch’essa pregna di questa ideologia):

Per la maggior parte dei genitori, i figli sono una fonte di reddito psicologico, o di soddisfazione. Pertanto, nella terminologia economica, essi si possono considerare un bene di consumo. I figli possono anche fornire reddito, ed in qualche caso sono anche un bene produttivo. Inoltre, né le spese né il reddito prodotto dai figli sono fissi, ma variano a seconda della loro età. Questa caratteristica fa dei figli un bene durevole, sia produttivo che di consumo. Può sembrare eccessivo, artificiale, forse anche immorale classificare i figli alla stregua di automobili, case o macchinari. Questa classificazione però non implica che le soddisfazioni o i costi associati ai figli siano gli stessi, da un punto di vista morale, di quelli che corrispondono ad altri beni durevoli).

[da G.S. Becker, L’approccio economico al comportamento umano, Bologna, il Mulino, 1998 (ed orig. 1960), p. 37]

I figli visti come beni di consumo o, peggio ancora, come bene produttivo, rappresentano adeguatamente il livello di stravolgimento assiologico di questo discorso: invece di essere funzionale alla vita, l’economia la fagocita e ne inscatola con cinica indifferenza l’infinita ricchezza in una serie di anonimi contenitori tutti uguali e misurabili, che si chiamano “beni di consumo” o “beni produttivi”. In questo delirio di onnipotenza, i legami familiari, i sentimenti, le aspirazioni, i destini di individui e popoli diventano la variabile dipendente delle leggi naturali del mercato, concepite come fisse e immodificabili, come un Fato di fronte al quale si può solo chinare la testa, con pia rassegnazione.

Non ci rendiamo sempre conto di quanto abbiamo finito per considerare normale questa maligna distorsione della realtà sub specie oeconomica, che rende pensabile l’impensabile, attraverso l’apparente neutralità del linguaggio scientifico. Finiamo con l’abituarci al fatto che in molte aree del mondo esistano bambini-schiavi, bambini-soldato, bambini-oggetto sessuale (che sono senz’altro “beni produttivi”) o al fatto che le famiglie possano essere disgregate senza riserve, perché prima vengono le esigenze produttive, quando i genitori devono accettare un posto di lavoro sempre più precario in luoghi diversi e lontani fra loro, quando devono lavorare oltre l’orario per non perdere il posto, quando l’azienda delocalizza l’attività; oppure ci diventa familiare il fatto che i bambini, sempre più soli, vengano tenuti buoni lasciandoli incollati molte ore al giorno ai loro costosi schermi digitali, che li rendono dipendenti e rubano loro esperienze ben più vitali; o ancora, riusciamo a trovare accettabili le ricette neoliberiste per la scuola, espresse in una neolingua economica dalla quale vengono espulsi la vita, la bellezza, la conoscenza, la relazione profonda e la crescita umana.

Su quest’ultimo aspetto mi voglio soffermare qui. Ci sembra ormai normale parlare di dirigenti scolastici (come in azienda), anziché di presidi; di debiti e crediti formativi, di offerta formativa, di successo formativo, di piani e pianificazione, di innovazione e imprenditorialità, di competenze intese non nel senso etimologico di un sapere a cui si aspira condividendo esperienza (cum + petere), ma come il bagaglio di strumenti per competere alla pari sul mercato (to compete), da certificare (altra parola della neolingua) e da misurare con test oggettivi e standardizzati (si ricordi il Portfolio delle competenze della Ministra Moratti, fulgido esempio di lessico aziendalista).

La Buona Scuola di Renzi è un concentrato di ideologia neoliberista, in cui tutto è finalizzato a trasformare la scuola in un’azienda, i docenti in passivi impiegati privi di autonomia professionale e costantemente sotto ricatto economico e psicologico, gli studenti in docili schiavi da addestrare per le esigenze del mondo del lavoro, ma privi di creatività e di senso critico, in cui il tempo-scuola – sempre più ridotto dal 2008 in poi, fino alla trovata dei licei quadriennali – è un tempo infarcito di attività accattivanti, ma prive di sostanza culturale, come il CLIL (ovvero l’insegnamento di una materia in lingua straniera con didattica smart) o la didattica multimediale; dove il mondo del lavoro entra di prepotenza nella didattica, diventandone lo scopo, e arriva, con il nuovo esame di Stato, a valutare l’alunno al posto del docente per una parte cospicua del voto finale; dove infine gli enti certificatori esterni, come l’INVALSI, che entrerà anch’esso nella valutazione finale dello studente, sottraggono una bella fetta di autonomia didattica al docente, costringendolo all’aberrazione del teaching to test, cioè a sacrificare ulteriormente la filosofia, la matematica, la storia o la letteratura alla preparazione al test standardizzato.

Nell’orizzonte ideologico neoliberista, non esistono né l’uomo né il cittadino, ma solo il lavoratore e il consumatore, e la standardizzazione livella ogni differenza di personalità e di profili attitudinali individuali. Da quest’anno, entra nella valutazione finale in uscita dalla scuola primaria (a 10 anni!) una qualità comportamentale che si chiama “Spirito di iniziativa ed imprenditorialità” (Decreto Legislativo 62/2017, art. 2. Valutazione nel primo ciclo). Tanto per chiarire subito qual è il fine.

Un bambino che cresce intossicato da questa visione del mondo è pronto ad accettare qualunque lesione ai propri diritti, a considerare normale l’egoismo e naturale competere con gli altri, a dare per scontata la “durezza del vivere” che è il prezzo della crescita, a considerare il lavoro, anziché la propria emancipazione personale e civile come scopo dello studio, a non fare mai domande, poiché tutto è già pianificato, predisposto e certificato, ogni conoscenza è misurabile e quantificabile e ciò che esula dalla misura standardizzata (il pensiero critico, il gusto estetico, la creatività) non ha più posto nella sua formazione e nel suo portfolio delle competenze.

In questo modello di scuola, l’autonomia didattica del docente scompare, compressa dalla pressione ministeriale a conformarsi ai metodi via via imposti dall’alto come innovativi (come se fosse il metodo a garantire il contenuto), dalle attività scolastiche obbligatorie, come l’alternanza scuola-lavoro, che sottraggono tempo alla didattica, dall’influenza dei datori di lavoro che valutano gli studenti, dai vincoli dell’INVALSI, dalla valutazione meritocratica (ovvero dalle conseguenze economiche) dei suoi risultati quantificabili con il “successo formativo” degli allievi, dall’ingerenza dei privati nel finanziamento e nella gestione degli istituti, dalla ragnatela degli obiettivi delle reti di scuole e dei PTOF, a cui ci si deve attenere.

E poiché, come dice il piano del governo, “le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola”, intervengono le risorse private che “possono contribuire a trasformare la scuola in un vero investimento collettivo” (pag. 8). Vale la pena seguire l’intera argomentazione del documento ministeriale (corsivi miei):

Le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola. Stiamo parlando della più grande e preziosa rete pubblica del Paese, ma anche di un cantiere sempre aperto, che richiede costante cura e aggiornamento. La scuola è una frontiera mobile: se pensiamo alle sfide della competizione globale, al dinamismo di una società sempre più multiculturale, alla rapidità del cambiamento tecnologico, capiamo subito le esigenze di una continua sperimentazione educativa. Vale per la scuola quanto è ormai ovvio per moltissimi altri ambiti, a partire dalla ricerca: sommare risorse pubbliche a interventi dei privati è l’unico modo per tornare a competere. Non c’è quindi nulla da temere dall’idea che, a certe condizioni, risorse private possano contribuire a trasformare la scuola in un vero investimento collettivo. A maggior ragione se ne giustifichiamo lo sforzo creando una visione comune in cui credere convintamente tutti, come cittadini. Per funzionare, questo investimento collettivo deve essere apertamente incentivato. Anzitutto per le scuole deve essere facile, facilissimo ricevere risorse. La costituzione in una Fondazione, o in un ente con autonomia patrimoniale, per la gestione di risorse provenienti dall’esterno, deve essere priva di appesantimenti burocratici.

La scuola, in questa prospettiva, deve attrezzarsi alla competizione globale (data come indiscutibile), essere in continua sperimentazione (come se fosse sempre in funzione di esigenze esterne a sé e priva di riferimenti culturali), accogliere senza storie e senza controlli finanziamenti privati (con le relative pressioni esterne), diventare un investimento collettivo (ma i soggetti di questo “noi” non sono precisati e sono facilmente individuabili nei capitali privati) e diventare una Fondazione.

Eccolo lì, il punto-chiave, quello su cui pochissimo si è detto ai cittadini: la scuola-fondazione NON è la scuola pubblica della Costituzione, NON forma uomini e cittadini, ma lavoratori già pronti a entrare velocemente e senza diritti nel mondo del lavoro, NON colma le disuguaglianze sociali, ma le accentua, rendendole territoriali, NON rilascia titoli con valore legale, ma certificazioni di competenze, abbandonando i singoli alla leggi spietate del mercato, NON educa, ma si limita ad istruire secondo la volontà di chi la finanzia. Ritroviamo qui per intero il Verbo neoliberista: deregolamentare, privatizzare e tagliare servizi pubblici con la scusa del debito pubblico e della carenza di fondi, unica realtà immodificabile. L’autonomia scolastica, nata per superare il centralismo burocratico della scuola statale, con una mutazione genetica diventa la solitudine darwiniana della scuola, che deve mantenersi a galla nella lotta per la sopravvivenza escogitando sempre nuovi modi per attrarre finanziamenti, perdendo ogni reale autonomia e diventando privata nella sostanza.

Questo è un tradimento del compito educativo della scuola ed è un violento assalto ai valori sui quali si fonda la scuola della Costituzione. Ma ne riparleremo nel prossimo articolo, cercando di vedere quali azioni concrete si possono mettere in atto per contrastare questa deriva apparentemente inarrestabile.

[continua]

Violenza in classe: come ci siamo arrivati?

Il mestiere di docente non è mai stato così pericoloso. L’escalation di aggressioni e offese agli insegnanti da parte di studenti e genitori sta facendo emergere il disagio profondo in cui versano la scuola e la società intera.

In queste settimane, si sprecano riflessioni e commenti da parte di pedagogisti, psicologi, sociologi, giornalisti, filosofi ed esperti di ogni genere. In particolare, l’associazione fra violenza e basso livello di istruzione proposta da Michele Serra su Repubblica ha suscitato discussioni a non finire.

Come tutti i fenomeni sociali, anche la violenza a scuola è un fenomeno plurideterminato. Lungi dal voler esaurire le cause possibili del degrado del clima educativo in classe, proverei comunque a indagare su alcune condizioni che lo favoriscono, partendo da quelle più immediate.

Michele Serra non ha tutti i torti quando collega la violenza alle scuole tecnico-professionali e al basso livello socio-culturale delle famiglie d’origine, perché – anche se può non piacere a molte anime belle – è drammaticamente confermato dalle ricerche sociologiche che l’utenza degli istituti tecnici e professionali è correlata a voti più bassi in uscita dalla scuola media, rispetto a quella dei licei, e questi, a loro volta, sono correlati allo status socio-culturale più basso delle famiglie di origine. Anche se non certo in via esclusiva, molti degli episodi narrati dai media hanno avuto come contesto istituti tecnico-professionali. Può darsi che il rapporto con i docenti sia più difficile nelle famiglie dove l’istruzione gode di minor considerazione o dove il disagio socio-economico si fa sentire di più.

Tuttavia, una spiegazione di questo tipo appare assai parziale e soprattutto astratta.

Una ragione più immediata del disagio è che, nelle scuole “razionalizzate” (ovvero “amputate”) dalle riforme degli ultimi vent’anni, ci sono troppi alunni per classe, insegnanti molto soli e demotivati, troppo anziani, non abbastanza formati e non abbastanza sostenuti nella fatica di ogni giorno; c’è una pressione costante a nascondere la dispersione scolastica e lo scadimento costante del livello degli apprendimenti dietro al buonismo obbligatorio delle promozioni regalate anche a fronte di gravi lacune; c’è un taglio progressivo e drammatico delle ore di lezione e dei contenuti; c’è la mancanza di un autentico e lungimirante spirito riformatore, che faccia della scuola un luogo di produzione di sapere e di cultura, vero cuore pulsante del Paese e oggetto di cura e attenzione da parte delle Istituzioni e dei cittadini.

Ad un livello più profondo, c’è l’abdicazione dei genitori al loro ruolo educativo e la completa delega alla scuola della responsabilità di dire di no ai pargoli superprotetti e nel contempo la svalutazione e il discredito del ruolo educativo degli insegnanti, ai quali viene riservata la considerazione di cui godono dei proletari sottopagati, invece del prestigio di cui dovrebbero godere dei professionisti ai quali si affida il futuro delle nuove generazioni. Alla scuola si chiede continuamente di sopperire a tutte le lacune e ai mali profondi della società, senza però dotarla di mezzi, di competenze, di prestigio e di considerazione sociale. Se la scuola italiana ha retto tutto sommato miracolosamente fino ad ora, lo si deve allo spirito di abnegazione di quegli insegnanti (non tutti, certamente) che tengono duro nonostante venga scavato loro ogni giorno il terreno sotto i piedi.

La fuga dalla responsabilità è il male sociale che ci affligge. A cominciare dal vertice, due decenni di cialtroneria politica, di zuffe mediatiche fondate sulla legge del più forte (quanto a volume di voce, non di argomenti), di demeritocrazia, ovvero di gestione delle cariche pubbliche pressoché totalmente svincolata dal merito, di autoreferenzialità della casta rispetto alle proprie scelte dannose, delle quali di fatto non si assume mai la responsabilità, hanno inciso profondamente sulla coscienza degli Italiani. Si è imbarbarito il linguaggio del dibattito pubblico e, per il notissimo principio dell’apprendimento per imitazione, la violenza verbale rappresentata ogni giorno nei media è stata sdoganata. Con quale autorevolezza possono insegnare ai ragazzi il rispetto, l’empatia, il dialogo democratico degli insegnanti continuamente vilipesi e disprezzati sui media come categoria di nullafacenti privilegiati, in una società che offre a tutti i livelli la tracotante indifferenza a questi valori? Come possono far apprezzare lo studio e il sapere, quando ogni giorno i modelli vincenti proposti dagli adulti sembrano prescindere dalla cultura, dalla competenza e dall’impegno?

A livello educativo, questa mancanza di responsabilità assume la forma di assenza di autorevolezza. I ragazzi, a tutte le età, hanno un bisogno assoluto di riferimenti autorevoli. Un adulto autorevole sa dare regole e controllare, ma sa anche ascoltare e proteggere quando serve. Sa prendersi la responsabilità di dire di no, senza essere un tiranno. I “no” aiutano a crescere e strutturano una personalità equilibrata, capace di sopportare le inevitabili frustrazioni della vita. Molti genitori (non tutti, per fortuna) non sembrano più in grado di offrire ai propri figli un modello di questo genere. Troppo faticoso, in una società dove il tempo da dedicare ai figli è scarso e dove spesso si è fagocitati dal lavoro e dalle preoccupazioni. È più facile lasciar perdere e salvare la pace familiare.

Purtroppo, a volte nemmeno gli insegnanti ci riescono. Insegnare non è un lavoro per tutti e con ragazzi che arrivano da famiglie così permissive o prive di struttura lo è ancora meno. Gli insegnanti tormentati dagli allievi non di rado sono deboli e poco autorevoli. È come se i ragazzi indirettamente chiedessero loro di far sentire da che parte sta il potere nella relazione educativa (che per sua natura deve essere asimmetrica). A casa non lo imparano dagli adulti e di conseguenza non sanno che cosa sia la responsabilità; perciò vanno in escandescenze quando incontrano i primi ostacoli in classe. Per loro l’adulto non ha alcuna autorità; è un fratello maggiore al quale nulla è dovuto. Li conosco, questi genitori: sono quelli che arrivano infastiditi al colloquio con il docente quando il figlio prende un’insufficienza con l’argomento che il pargolo deve avere 6, perché non hanno tempo di occuparsene. Non sempre sono di bassa condizione sociale, anzi… La mancanza di riferimenti autorevoli produce principini narcisisti e onnipotenti, ai quali i genitori, schiacciati dal senso di colpa per la scarsa disponibilità verso i bisogni autentici dei figli, lasciano decidere tutto fin dalla tenera età. Fragili e privi di limiti, questi figli narcisi non vedono più in là dei confini del proprio ego e dei suoi impulsi immediati.

E veniamo a loro, ai ragazzi. Questi ragazzi (parlo degli adolescenti, perché ci lavoro insieme da oltre trent’anni) sono in molti casi soli. Passano troppo tempo sui dispositivi digitali (per parecchi lo smartphone è oggetto di un vero attaccamento affettivo) e da un’età troppo precoce, con tutti i danni che ne derivano e che sono stati illustrati molto bene dal neuropsichiatra Manfred Spitzer nel suo libro Demenza digitale (Ed.Corbaccio): dipendenza, danno da campi elettromagnetici, sottrazione di tempo alla lettura e all’interazione faccia a faccia, danni cognitivi, rischi per la privacy, aumento dell’aggressività (specie per l’utilizzo dei videogiochi) e diminuzione dell’empatia. Spesso le bravate a danno dei docenti raccontate sui giornali sono state pensate nella prospettiva della diffusione sui social network e nelle chat. Sono messe in scena per un pubblico di pari, in cambio di una fragile popolarità che li faccia sentire esistenti.

A questi ragazzi la scuola non dice molto e appare per lo più come una spiacevole interruzione delle loro attività digitali. La lettura è attività rara perfino al liceo. Il sapere appreso sui banchi appare vuoto e inutile e si aspettano la promozione per il solo fatto di andare a scuola. Questo non significa che la scuola debba inseguirli sul terreno tecnologico, ma che deve trasmettere e costruire con loro un sapere vitale, in grado di coinvolgerli. Perché possa riuscirci, occorrono insegnanti altamente selezionati e formati, dirigenti all’altezza, un’alleanza educativa con le famiglie, una maggiore considerazione del valore della scuola e del sapere a livello sociale (l’Italia, non dimentichiamolo, ha un numero enorme di analfabeti funzionali, circa il 70% della popolazione adulta), un senso di responsabilità condiviso. E così torniamo all’inizio. Siamo in un circolo vizioso.

Questa scuola povera, svuotata, imbelle e irrilevante è il risultato di due decenni di logoramento progressivo e sistematico, ad opera di tutti i governi. Invece di essere riformata, la scuola italiana è stata smantellata. Mentre gli altri comparti della Pubblica Amministrazione hanno subito tagli lineari del 2%, la scuola si è vista sottrarre il 20% delle risorse. È un miracolo che esista ancora, benché compromessa. Ma non è colpa della scuola se i ragazzi sono violenti e privi di autocontrollo. Semmai, sia l’istruzione pubblica piegata alle esigenze del mercato, per il quale contano più le competenze delle conoscenze e più il conformismo del senso critico, sia l’individualismo sfrenato e l’ignoranza arrogante e soddisfatta di sé diffuse in una società che sta perdendo i valori fondanti della solidarietà, del bene comune, dell’impegno e della cultura sono il frutto malato di quella vera perversione della natura umana che è l’ideologia neoliberista.

L’uomo è un essere intimamente sociale e predisposto all’empatia. Quando si insegna per decenni attraverso la parola e l’esempio che l’avversario è un nemico, che per affermare se stessi occorre competere, che i servizi pubblici sono uno spreco, che tutto si misura in termini economici, che con la cultura non si mangia e che i diritti sono sacrificabili sull’altare del profitto; quando si riduce l’istruzione al minimo, si riducono i salari e le tutele e si sdoganano a tutti i livelli la sopraffazione, l’arbitrio, la violazione delle regole, siamo di fronte ad una patologia individuale e sociale. I sociologi la chiamano “anomia”; gli psicologi possono scomodare etichette diagnostiche che vanno dal narcisismo alla psicopatia. Un popolo disgregato, al quale manca il senso di appartenenza ad una comunità, è facilmente manipolabile, oltre che infelice. Divide et impera, dividi e comanda.

E così, con gli adulti affannati nella sopravvivenza quotidiana, i figli trattati come polli in batteria a cui dare il meno possibile perché non pensino ad altro che ai propri bisogni immediati e i docenti privati di prestigio e di credibilità, come la cultura di cui sono obsoleti portatori, al posto di una democrazia partecipativa, fondata sulla consapevolezza dei diritti e sulla responsabilità, stiamo imboccando il tunnel di una democratura, fondata sulla rinuncia inconsapevole ai diritti e sull’irresponsabilità.

Non credo che se possa uscire né cambiando solo la scuola né limitandosi a punire gli studenti violenti. Certo, le azioni penalmente rilevanti vanno sanzionate anche penalmente. La responsabilità si impara pagando il prezzo delle proprie azioni; perciò l’indulgenza zuccherosa dei docenti e dei dirigenti che lasciano correre è deleteria almeno quanto il lassismo o l’arroganza dei genitori mai cresciuti che ne sono la causa prossima.

Per uscire da un degrado così profondo, occorre guarire la malattia che lo ha provocato. Servono un futuro da costruire (questi ragazzi non ce l’hanno), la scoperta di un senso nella vita e un vero salto evolutivo della coscienza. Viviamo in mondo inquinato sul piano fisico da infinite sostanze tossiche, sul piano mentale da pensieri fuorvianti e dalla distrazione di massa, sul piano spirituale dalle catene della dipendenza dall’avere. Ci servono un paradigma diverso da quello neoliberista e un nuovo umanesimo, pragmatico, ma fondato sulla cooperazione e sull’empatia. Non sembra davvero facile, dato il livello del disfacimento sociale, ma nemmeno impossibile. Accanto ad una minoranza di ragazzi violenti e maleducati (ed anche fra loro) ci sono molti coetanei pieni di energie che devono solo trovare uno sbocco costruttivo. A questi uomini di domani servono uno scopo e dei maestri, altrimenti avranno solo dei capi-branco e dei dittatori. Siamo in grado di offrirglieli?

Ma davvero non c’è modo di dare ai docenti un reddito dignitoso?

Umiliare i docenti con uno stipendio da fame, mentre si trovano seduta stante i fondi per il salvataggio delle banche o per l’acquisto degli F35 e si regalano stipendi d’oro a dirigenti pubblici, appare evidentemente frutto di una volontà politica precisa e della volontà di liquidare il prestigio e il ruolo sociale dell’istruzione in questo Paese.

La litania del debito pubblico e dei parametri europei è una finzione che viene dall’aver rinunciato alla sovranità monetaria (il potere più grande dello Stato), aderendo senza discussione ai Trattati europei. Le conseguenze erano implicite nelle premesse, solo che i governanti del tempo si guardarono bene dall’illustrarle al popolo.

Eppure, pur nei limiti strettissimi del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFEU), che obbliga gli Stati membri a comprare euro a debito come una valuta straniera, sono possibili delle vie d’uscita. Lo dicono diversi economisti di area keynesiana, come Nino Galloni, i quali sostengono che lo Stato mantiene titolo ad emettere stato-note, buoni di acquisto o crediti fiscali, che possono essere utiizzati dai dipendenti pubblici per acquistare beni o servizi e dai fornitori di tali beni e servizi per pagare le tasse.

Per entrare più nel dettaglio, l’art. 128 TFEU dice: “La Banca centrale europea ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote in euro all’interno dell’Unione. La Banca centrale europea e le banche centrali nazionali possono emettere banconote. Le banconote emesse dalla Banca centrale europea e dalle banche centrali nazionali costituiscono le uniche banconote aventi corso legale nell’Unione.

2. Gli Stati membri possono coniare monete metalliche in euro con l’approvazione della Banca centrale europea per quanto riguarda il volume del conio”. La Banca d’Italia traduce questa norma così sul sito web: “La moneta fiscale non potrebbe avere corso legale; il Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art. 128) e il Regolamento EC/974/98 (art. 2, 10 e 11) stabiliscono, infatti, che le banconote e le monete metalliche in euro sono le uniche con corso legale nell’unione monetaria“. In realtà, l’art 128 non dice quello che afferma la Banca d’Italia. Non dice che l’unico mezzo legale di pagamento sono le banconote e le monete metalliche in euro (peraltro, queste già prerogativa degli Stati), ma dice che solo le banconote emesse dalla BCE e dalle banche nazionali sono banconote aventi corso legale. Significa (questo è solo semantica del testo) che non esistono altre banconote aventi corso legale nell’UE, non che le banconote siano l’unico mezzo legale di pagamento!

Conferma questa ermeneutica del testo la stessa Banca d’Italia, quando dice che esistono altri mezzi legali di pagamento oltre le banconote e le monete, per esempio la moneta elettronica bancaria (moneta scritturale), che non è fatta né di banconote né di monete: ““Nel portare a termine una transazione pecuniaria famiglie e imprese possono utilizzare oltre alla moneta con corso legale anche mezzi di pagamento privati, definiti e regolati da accordi tra le parti. I depositi bancari a vista, ad esempio, sebbene privi di corso legale costituiscono un mezzo di pagamento molto diffuso poiché il depositante può chiederne la conversione in moneta legale al valore nominale pieno in qualsiasi momento”.

Che cosa definisce allora un mezzo di pagamento come “legale”? Non certo la BCE né le Banche nazionali. Può essere solo lo Stato. In teoria, lo Stato potrebbe accettare come mezzi di pagamento delle imposte anche dei sacchi di grano ed è sempre lo Stato che permette di utilizzare mezzi di pagamento non a corso legale, come la moneta elettronica, che è usata solo per comune accordo fra le parti. Se ci attenessimo alla lettura restrittiva dell’art. 128, la moneta scritturale (generata dalla banche nel momento in cui la prestano) non sarebbe conforme al TFEU. Nella sostanza, la proposta di Galloni non è molto diversa da uno sconto fiscale.

Che questa strada sia percorribile e non influisca sul debito, ma anzi lo riduca, si evince anche da altre considerazioni. Sebbene la Banca d’Italia sostenga che la moneta fiscale o altri strumenti analoghi vada iscritta a debito, secondo che principi contabili internazionali (IFRS 15 e IAS 18) un titolo che dà diritto a uno sconto futuro non deve essere registrato contabilmente all’atto dell’emissione. Semplicemente, andrà a ridurre le entrate nel momento in cui verrà utilizzato.

Gli strumenti adottati dallo Stato per il pagamento delle imposte non sono materia di competenza della BCE. Quando gli eurodeputati Marco Valli (5 Stelle) e Marco Zanni (ex 5 Stelle, oggi forse Lega) hanno chiesto a Mario Draghi in persona se i Certificati di Credito Fiscale costituissero incremento di debito per lo stato, Draghi rispose formalmente (16 novembre 2015): “The definition of the appropriate statistical treatment – as far as government deficit and debt are concerned – of tax credit certificates or any similar instrument does not fall within the ECB’s competence. Therefore, I would kindly refer you to the competent national and/or European authorities.Yours sincerely, Mario Draghi”.

Ripropongo, perciò, il documento pubblicato due settimane fa sull’argomento

IN CONCLUSIONE, se il Governo volesse veramente darci il dovuto, il modo ci sarebbe, è di immediata attuazione, non aumenterebbe il disavanzo pubblico e darebbe una boccata d’ossigeno all’economia. Ma non è che proprio strangolare la scuola, dopo la lenta asfissia degli anni scorsi, sia l’obiettivo politico di questo Governo? Togliere alla democrazia il suo pilastro fondamentale è pericoloso ed eversivo, e noi dobbiamo vigilare e prendere posizione nettamente affinché questo non avvenga.

Per approfondire: http://temi.repubblica.it/micromega-online/moneta-fiscale-il-punto-della-situazione/

https://www.bancaditalia.it/media/views/2017/moneta-fiscale/index.html