Quando il privato governa il pubblico. La frontiera del corpo

Se la socialità, come già affermava Aristotele, è la qualità principale degli esseri umani e della loro intelligenza, il carattere antisociale del globalismo neoliberista, che ha predicato la competizione, il possesso, la prevaricazione, l’egoismo, la disuguaglianza, la privatizzazione di ciò che appartiene a tutti, ne fa indubbiamente una potente ideologia antiumanista e antiumana. Quando si sancisce nei fatti il diritto di pochi di possedere una fetta enorme dei beni del pianeta, di dirigerne le sorti, di decidere della vita o della morte di miliardi di persone, dettando legge anche agli Stati, è inevitabile che valori quali la solidarietà, la felicità, la crescita spirituale degli individui e delle comunità diventino carta straccia e l’essere umano, da copula mundi, ovvero punto di congiunzione fra spirituale e materiale, come lo definiva il dotto filosofo umanista Marsilio Ficino, si riduca alla mera dimensione corporea, a semplice strumento da lavoro, come una res, un oggetto, privo di diritti soggettivi. Così è in effetti per le moltitudini affamate e sfruttate di molti Paesi di questo mondo squilibrato, e così rischia di diventare anche per noi europei.

Ci siamo beati per decenni nella stolida illusione che i diritti civili, politici, sociali, conquistati con tante lotte, fossero un patrimonio acquisito una volta per tutte. Per questo, in base al principio della rana bollita di cui parlava Noam Chomsky, ci siamo lasciati portare via un pezzo dopo l’altro tutto ciò che avevamo conquistato e scritto nella nostra bella Costituzione: l’autodeterminazione, la moneta sovrana, il diritto al lavoro e alla dignità, la scuola (veramente) pubblica, la Sanità pubblica, lo Stato sociale, ora anche tutte le libertà personali, di espressione, di informazione, di movimento, di relazione, di manifestazione, di impresa, a cui abbiamo rinunciato, si spera solo temporaneamente (ma lo sperare è già segno che altri decideranno e concederanno), senza battere ciglio, perché terrorizzati da un sistema mediatico sadicamente allarmante e infantilizzante. Così, sotto il nostro sguardo distratto, in piena regressione da impotenza appresa, ci è forse sfuggito che è minacciata l’estrema libertà, quella di decidere per il proprio corpo.

“La politicizzazione della nuda vita come tale costituisce l’evento decisivo della modernità”, scrive Giorgio Agamben. Abbiamo accettato che, per tutelare la mera sopravvivenza fisica, che Aristotele chiamava zoé, da uno solo dei numerosissimi pericoli che la minacciano ogni giorno, abbiamo rinunciato a vivere una vita libera (bíos), ancorché esposta a rischi, e a preferirle un’ambigua sicurezza fornita dall’autorità e un’innaturale separazione fisica dai nostri affetti, dalle relazioni e dalle esperienze che ci rendono umani. Abbiamo cioè accettato l’estrema scissione, quella dentro noi stessi, fra anima e corpo, fra ragione ed emozione, fra spirituale e animale. Ridotti a corpi senz’anima e alla pura esistenza biologica, privati della nostra individualità da una mascherina anonimizzante, isolati e vessati da un arbitrio poliziesco inaudito alimentato da norme irrazionali, contraddittorie e confuse, reclusi in quarantena o in TSO, benché sani, ipnotizzati da una comunicazione mediatica scorretta e manipolativa, forse non abbiamo capito che è il nostro corpo l’ultima frontiera del controllo e che su di esso decine di multinazionali, fondi d’investimento, società private, enti sovranazionali privatizzati come l’OMS, GPPP (partnership globali pubblico-privato, come GAVI o GHSA), di cui ho parlato in articoli precedenti, da anni lavorano incessantemente per toglierci la sovranità, ovvero la possibilità di decidere liberamente per noi stessi.

Durante la crisi da coronavirus, gestita da un’inutile Task Force eterodiretta dai potentati (privati) internazionali e sottratta al controllo dei cittadini, sono improvvisamente saltati fuori da un cilindro inesauribile l’orwelliana Task Force contro le fake news , che prima si chiamava latinamente “censura” oppure italicamente “Santa Inquisizione” e la cui istituzione risulta davvero singolare in una situazione nella quale non pare esserci alcuna certezza; i droni per la sorveglianza dei bagnanti solitari; i caschi della polizia capaci di rilevare la temperatura; la app Immuni (sulla quale il Copasir ha sollevato non poche perplessità per il rischio di centralizzazione e controllo dei dati personali, in base al quale chiunque potrebbe essere internato con un pretesto); le vaccinazioni mediante tatuaggi a punti quantici; le telecamere a riconoscimento facciale, già attive da tempo, ma ora sempre di più, con il pretesto della sicurezza; il passaporto vaccinale (sul quale si lavora in Europa da un paio d’anni, in vista dell’applicazione dal 2022); il 5G, tanto spinto dalla Task Force per evidenti ragioni, con annessa strage di alberi secolari; i vaccini a RNA o a DNA che modificano il genoma con conseguenze ignote e non reversibili; i microchip iniettati sottopelle, in fase di autorizzazione in Italia, nel silenzio dei media; i braccialetti per il distanziamento sociale, che qualche mente criminale ha pensato di applicare anche ai bambini fra 2 e 6 anni; le petizioni per la scomparsa del denaro contante, con la scusa del contagio; perfino la criptovaluta che si produce tramite comportamenti ed emozioni e di cui va visibilmente fiero l’onnipresente e onnipotente Bill Gates, attivissimo su parecchi fronti della sorveglianza globale, come scrive con preoccupazione il senatore statunitense Bob Kennedy Jr.

Quest’ultima novità merita particolare attenzione. Nel loro senso di invincibilità, le élites lasciano dappertutto simboli più o meno trasparenti. Il 21 settembre 2018, la Microsoft di Bill Gates registra un brevetto , pubblicato sul portale https://ipportal.wipo.int  il 26 marzo 2020, dal titolo CRYPTOCURRENCY SYSTEM USING BODY ACTIVITY DATA,  con il numero inquietante WO/2020/060606. 666 è infatti conosciuto come il numero della Bestia nell’Apocalisse. Ma al di là delle suggestioni e della coincidenza con la scadenza di ID2020, il progetto globale di identità digitale associata al corpo, il brevetto è assai più inquietante per i contenuti. Prevede infatti un sistema di criptovaluta centralizzata, basata sulla tecnologia della blockchain e comunicante con il centro tramite un sensore impiantato nel corpo, che assegna denaro virtuale in base alle azioni effettuate o alle emozioni provate dal soggetto. Così si può essere condizionati a fare e a pensare le cose “giuste”, sempre connessi con la Matrix. Si tratta insomma di una tecnologia che permette un tipo altamente sofisticato di social rating, ovvero di “prezzatura” delle persone, anziché delle cose, alla quale potranno essere subordinati i diritti personali (viaggiare, compare, vendere, accedere al conto corrente, privacy, relazioni) e la dignità (una suoneria e cartelloni di gogna digitale potranno mettere in guardia i “buoni” cittadini dall’avvicinarsi). Che non si tratti di paranoia fantascientifica, lo dimostra il fatto che il social rating è tragicamente già in corso di sperimentazione da qualche anno in Cina. Si può ascoltare su Youtube  la testimonianza di due donne che hanno osato protestare per l’esproprio della loro casa.

In questo modo, la pandemia più annunciata della storia (da Jacques Attali nel 2009, dalla Fondazione Rockefeller nel 2010, dall’UE nel 2012, da Bill Gates nel 2015 e nel 2019, ecc.), in nome della nostra salute e, come per ID 2020, dei nostri diritti, ci sta togliendo la sovranità sul nostro corpo, espropriandoci di quella sulla mente, ovvero ci sta privando della libertà. E mentre il popolo, paralizzato dal panico, dalla confusione e dall’irrazionalità di norme insensate, fa la spia sul vicino di casa e ha il terrore del contagio e della socialità, un commando di personaggi non eletti e messi lì dall’estero, approfittando dell’emergenza, come insegna la più classica teoria economica dello shock, stanno delineando il nostro futuro secondo i loro progetti. Senza sovranità monetaria, poveri e in un Paese devastato dagli appetiti privati, non ci sarà facile reagire all’ulteriore misura già pronta: la vaccinazione obbligatoria di massa contro l’influenza, in attesa del salvifico vaccino anti Covid-19. Maria Stella Gelmini ha già prontamente presentato in Parlamento la mozione, sulla scia della fortunata iniziativa della Lorenzin, che ha aperto il varco con i più piccoli. Il nostro corpo sarà ancora meno nostro, perché la disobbedienza (non più chiamata “libera scelta”) ci costerà quasi certamente la riduzione dei diritti che abbiamo sempre ritenuto intangibili, come avviene già con i bambini privati della scuola, benché sanissimi. Anche questo, peraltro, era progettato almeno dalla riunione GHSA del 2014 a Washington, da cui la Lorenzin ci ha riportato l’obbligo per 10 vaccini. Ovviamente, per il nostro bene, che da soli non siamo in grado di perseguire.

Insomma, la nostra salute sta così a cuore ai miliardari filantropi e ai nostri politici disinteressati, che per imporcela sono disposti senza troppe remore a chiudere in casa per mesi in isolamento lavoratori, bambini e anziani, a creare le condizioni per enormi danni psichici e per l’aumento dei suicidi, a privarci del sole, del movimento, delle relazioni, del gioco e del contatto con la natura, a censurare come fake news i suggerimenti più ovvi di prevenzione, come l’uso delle vitamine e una vita sana all’aperto, a imporci il 5G (tecnologia militare di controllo), tentando anche di toglierci il diritto ad opporci all’installazione delle antenne (ci hanno provato nel decreto Cura Italia), a mantenerci nello stress dell’incertezza e delle sanzioni, inflitte senza motivo razionale a cittadini esausti, a imporci l’uso delle mascherine, che le autorità sanitarie, e perfino l’OMS, giudica inutili nella maggior parte dei casi, quando non pericolose per la salute e che in altri Paesi europei non si usano, ad accarezzare l’apertura agli OGM (anche qui Bill Gates ha lucrosi interessi: dalla culla alla tomba, si direbbe). Per non parlare dei danni economici, della rinuncia ad esercitare la sovranità monetaria, del MES e del fascicolo sanitario elettronico senza consenso, che segue alla cessione dei nostri dati sanitari a multinazionali straniere, già voluta dal governo Renzi, dell’intrusione nella famiglia e del delirio transumanista dell’ibrido uomo-macchina. Ci aspettano la privatizzazione dei servizi, come la scuola e la sanità, l’uso ubiquo della tecnologia, la “società del noleggio” e il “comunismo dei miliardari”, in cui i cittadini rinunciano a qualunque proprietà e prendono tutto in affitto.

La frattura fra cittadini e apparati dello Stato si sta allargando di giorno in giorno. Siamo in guerra, e non è un’iperbole. Lo siamo da decenni, anche se abbiamo dormito. Il progetto è chiaro e si chiama Nuovo Ordine Mondiale. Ha molti collaborazionisti e utili idioti, che finiranno stritolati pure loro, anche se si illudono di averne un vantaggio. Questa è una guerra senza reali vincitori. Coinvolge l’intero pianeta ed è il fine – o la fine – della globalizzazione neoliberista. Mira non al denaro, ma al depopolamento e al dominio sulle coscienze attraverso il controllo del corpo con la tecnologia. Tuttavia, l’esito è incerto e la Coscienza spirituale è imprevedibile. Tutti i sistemi totalitari hanno cercato di ridurre l’uomo ad insetto sociale, privo di individualità. Ma l’essere umano non è un insetto e il progetto biopolitico fallirà, semplicemente perché è impossibile. La tecnologia può schiacciare la Coscienza, ma non ucciderla, perché non è in grado di raggiungerla. E una Coscienza libera, responsabile, amorevole e giusta saprà sempre come fare per cambiare gli scenari distruttivi che dovrebbero fiaccarla. Perciò niente paura, pessimismo, scoramento o rinuncia. È ora di mettersi al lavoro. Ne vedremo delle belle.

Articolo pubblicato da Sovranità popolare, n° 4, 2020.

Scuola, ultimo atto: quando la competenza scaccia la conoscenza

Dialogo (d)istruttivo fra Smarty, il Nuovo Docente Formato alla Didattica per Competenze, e Sofia, la Vecchia Docente da Rottamare, ancora ostinatamente attaccata alle sue polverose Conoscenze.

Smarty

La lezione frontale? Roba da vecchie aule polverose, una noia mortale… Lo studio sistematico della storia o della letteratura? E a che pro? I programmi non esistono più, nella scuola delle competenze. Qui si impara dall’esperienza, lavorando in gruppo, per via induttiva e affrontando compiti di realtà, ovvero problemi quotidiani. Basta con le lezioni dalla cattedra, in cui parla solo il docente! La scuola deve mettere gli studenti al centro!

Sofia

Ma guarda un po’… Sei appena arrivato, e parli come se avessi scoperto l’acqua calda. I pedagogisti discutono da decenni se sia meglio la didattica frontale, in cui il docente tiene la sua conferenza quotidiana, o quella attiva, con la quale sono gli studenti a lavorare in autonomia, guidati dal docente. È una questione vecchia come la pedagogia. In un certo senso, l’hanno pure risolta. Per fortuna, esistono le ricerche scientifiche. Ed hanno constatato che entrambi i metodi hanno pregi e difetti. Con il metodo frontale, si riesce a trasmettere una quantità molto maggiore di conoscenze, ordinate e di ottima qualità, ma se il docente non riesce a coinvolgere gli allievi e a stimolarne l’interesse, può risultare noioso, come dici tu, e libresco. Con il metodo attivo, gli studenti sono più coinvolti e memorizzano meglio ciò che hanno imparato attraverso la propria esperienza personale, ma si impara complessivamente molto meno, in modo più frammentario e meno solido dal punto di vista teorico. L’insegnamento migliore è quello che li usa entrambi, a seconda del contesto e degli argomenti. Ma ricorda che una lezione frontale ben fatta, fondata su domande stimolanti e vitali, può dare più soddisfazione agli studenti di un dispersivo lavoro di gruppo.

Smarty

Quello che dici tu andava bene per le generazioni passate. Oggi a scuola abbiamo i Millennials, i ragazzi che sono nati con lo smartphone in mano… Come si fa a catturare la loro attenzione con la vecchia lezione dalla cattedra? E poi con i new media si impara moltissimo… A che servono tutte ‘ste nozioni, se hai tutto a portata di click? Bisogna svecchiarsi, dài. Non si può fare lezione come nell’Ottocento!

Sofia

Hai ragione sui Millennials. Infatti i neuropsichiatri seri, come il tedesco Manfred Spitzer, sulla scorta di centinaia di studi scientifici condotti nelle migliori Università, sostengono che l’uso precoce di smartphone e PC sia causa di demenza digitale. Fra i tanti danni dei tuoi benedetti aggeggi digitali, infatti, ci sono la riduzione progressiva della capacità di attenzione, la mancata formazione delle vie neurali per lo sviluppo delle abilità linguistiche e matematiche, la dipendenza, il tempo sottratto alla lettura e alle amicizie, la sensazione di sapere, mentre si è ignoranti, per il semplice fatto di essere sempre connessi. Se diamo in mano agli studenti lo smartphone in classe, li faremo senz’altro smanettoni e magari pure divertiti, ma stupidi. E comunque informazioni e conoscenze non sono la stessa cosa. C’è la stessa differenza che c’è fra i mattoni accatastati alla rinfusa e l’edificio terminato, conforme ad un progetto.

Smarty

Si vede proprio che vivi in un altro mondo… In ogni caso, che ti piaccia o no, ce lo chiede l’Europa. Non hai letto i documenti europei che negli ultimi vent’anni hanno ribadito in ogni modo il ruolo delle competenze? E come lo trovi il lavoro, studiando Raffaello o Boccaccio? Carmina non dant panem…  Come fai ad essere competitivo, se non vai oltre le conoscenze e non impari ad essere autonomo, a sviluppare la capacità di lavorare in gruppo, se non sai usare le tecnologie digitali, se non hai le tue belle certificazioni linguistiche e non ti prepari per la formazione permanente? Non dico che un po’ di conoscenze non servano, ma senza le competenze i ragazzi saranno tagliati fuori dal mondo del lavoro.

Sofia

Ma da quando in qua il mondo del lavoro è il fine della scuola? E la competizione, poi? Dove l’hai vista nella Costituzione? Hai mai sentito parlare degli “inderogabili doveri di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2)? O del “pieno sviluppo della persona umana” e dell’ “effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3)? Mi spieghi come faranno questi sventurati ragazzi, specie se non vengono da una famiglia ricca e istruita, a migliorare il proprio status senza un bagaglio di conoscenze ampie e ben strutturate? Non crederai mica che si possano acquisire le competenze vere, come il senso critico, la capacità di argomentare, di comprendere il senso di un’opera d’arte o di un testo letterario in autonomia, di difendere i propri diritti e di svolgere con coscienza i propri doveri di uomini e di cittadini solo sulla base della classe flippata*? Diceva don Milani che ogni parola non imparata oggi è un calcio in culo domani. Quanto aveva ragione! Pensi davvero che con il lavoro di gruppo e procedure induttive si possano imparare tante parole quante ne fa apprendere la lezione frontale?

* [N. d. A: flipped classroom è la classe rovesciata, nella quale sono protagonisti gli allievi]

Smarty

Ma allora proprio non capisci. Qui nessuno ha detto che le conoscenze devono sparire. Devono soltanto essere subordinate alle competenze. Sono le competenze il nuovo scopo della didattica. Solo così avremo finalmente una didattica inclusiva, capace di accogliere tutti, anche gli studenti svantaggiati a cui sembri tenere tanto. La scuola delle competenze è innovativa perché permette di superare la demotivazione e l’estraneità della lezione frontale e il disamore per lo studio. Gli studenti verranno a scuola più volentieri e impareranno di più, perché saranno coinvolti in ciò che imparano. Ma hai letto l’elenco delle competenze definito dalla Raccomandazione del Parlamento europeo del 7 settembre 2006? Guarda che sono previste anche le conoscenze:

comunicazione nella madre lingua, comunicazione nelle lingue straniere, competenza matematica, competenze di base in scienza e tecnologia, competenza digitale, imparare ad imparare, competenze sociali e civiche, spirito di iniziativa e imprenditorialità, consapevolezza ed espressione culturale.

Sofia

Guarda che sei tu quello che non ha le idee chiare. Chiariamo subito una cosa: che un conto è il fine e un conto è il metodo. Il fine di sviluppare le competenze è sempre stato presente nella scuola. Conoscenze, abilità e competenze, o se preferisci sapere, saper fare e sapere essere sono da sempre il fine dell’istruzione. Quando frequentavo il mio austero liceo classico d’altri tempi, anche senza le classi flippate ho sviluppato competenze di valore inestimabile, che mi hanno permesso di formarmi una cultura ampia e solida anche se i miei genitori avevano la terza elementare e di essere qui adesso a discutere con te. Ma senza le conoscenze, senza le mie versioni dal greco e dal latino, non stringerei nulla. Pensa che perfino negli studi sull’intelligenza si è compreso che sono le conoscenze a renderci intelligenti e non le capacità grezze. Ma tu confondi il fine con il metodo: sembra che solo con il metodo attivo si possano conseguire le competenze, ed io te lo contesto fermamente. Ti assicuro che in 35 anni di insegnamento ho visto coorti di allievi altamente motivati e coinvolti anche nella lezione frontale. Non è il metodo che fa la differenza, ma l’energia coinvolgente dell’insegnante, se crede in quello che fa e trasmette passione per il sapere. E ho visto tante volte nei loro occhi la soddisfazione di aver espugnato un concetto difficile che mai avrebbero formulato da soli o di aver imparato a studiare molto in poco tempo.

In secondo luogo, chiedo io a te se quelle elencate sono le uniche competenze che la scuola deve fornire. Ma ti pare che non ce ne siano di più adatte al “pieno sviluppo della persona umana”? Per esempio, essere cittadini critici e consapevoli, conoscere se stessi e gli altri, avere sensibilità per la bellezza, saper essere mente, corpo e spirito, individui creativi e fruitori di cultura, saper essere membri attivi e responsabili di una comunità sociale, saper cooperare con altri in vista di un fine condiviso, sviluppando il senso del bene comune, la competenza emotiva e dialogica, la tolleranza delle opinioni che non si condividono, la disponibilità ad ascoltare e a difendere le proprie tesi in modo razionale e argomentato? Non vorrai dirmi che la deduzione trascendentale di Kant rientra da qualche parte nel tuo elenco? Con quelle competenze si allevano al più dei Monsù Travet, dei lavoratori non troppo critici.

E poi, sii onesto: al di là delle parole, come si fa a conservare le conoscenze in una didattica per competenze intesa come la intendi tu? Ti faccio un esempio concreto. Prendi un insegnante liceale di storia. Sviluppare il senso del divenire dei fenomeni umani e saperli collocare nello spazio e nel tempo non è una competenza fondamentale? Bene. Nel biennio, l’insegnante suddetto ha un’ora in meno di storia rispetto a 11 anni fa (dalla Riforma Gelmini del 2008) e deve condividere le ore con Geografia, che prima era materia a sé (ha anche un’ora in meno di Italiano, ma questa è un’altra faccenda). I suoi allievi sono molto più numerosi (intorno ai 30, di cui almeno 4 o 5 con BES o DSA) e arrivano da otto anni di scuola in cui la storia si è studiata poco o nulla, visto che si è abbandonato lo schema ciclico di Bruner, che prevedeva di riprendere l’intero percorso storico ad ogni nuovo ciclo didattico. Con le sue 66 ore annuali a disposizione, il nostro docente deve trattare in due anni tutta la storia antica e la geografia (le quattro nozioni che riesce a trasmettere) a studenti pressoché privi di nozioni di base. Il suo collega del triennio, che ha sempre due ore settimanali, 66 all’anno, deve arrivare in tre anni al Novecento…

Smarty

E vabbè, ma allora insisti… ti ho detto che non ci sono più i “programmi”. Parli tanto di libertà di insegnamento e poi non ti rendi conto che puoi scegliere tu che cosa insegnare. Mica sei obbligata a fare tutto… Sulla storia, poi, non hai nemmeno più il problema della prova scritta all’Esame di Stato. L’hanno tolta, tanto non la svolgeva nessuno.

Sofia

Ci stavo arrivando, appunto, se mi lasci finire il discorso. Supponi che il nostro bravo collega di Storia, con le sue 66 ore annue, decida di programmare, con ore e ore di lavoro extra non retribuito, un bel percorso interdisciplinare con i colleghi di Italiano e Storia dell’arte e una serie di moduli (pardon, di UDA, come si chiamano adesso) che prevedono alcune visite ai musei, l’analisi di documenti, la visione di un paio di film e qualche lezione in Inglese in modalità CLIL. Delle sue 66 ore, almeno un quarto circa se ne andrà fra assemblee studentesche, gite, progetti, alternanza scuola-lavoro, esperti esterni e altre interessanti attività consimili. Nelle 50 ore rimanenti, deve valutare i suoi 25-30 studenti almeno due volte al quadrimestre, altrimenti è fuori dalla legalità. Vorrà vedere come espongono la lezione? Se è molto esperto, se la cava con un quarto d’ora a studente. Moltiplicato 30 studenti per due volte al quadrimestre sono 60 quarti d’ora, 15 ore in tutto. Sempre che non si distragga un attimo e non si ammali. Poi però ci sono le prove di recupero, che sono tante, visto che gli studenti non studiano. Facciamo altre 5 ore? E sono 20. Da 50 siamo arrivati a 30…

Smarty

E chi ti dice che devi interrogarli? Anche quella è roba vecchia. Puoi valutarli molto più in fretta con un bel test! Così hai anche il vantaggio di monitorare tutti gli apprendimenti in modo strutturato.

Sofia

E tu credi che la capacità di esporre o di argomentare e l’attitudine al ragionamento storiografico si misurino con un test? Ma lasciami finire. Nelle sue 30 ore, il povero docente deve tentare la quadratura del cerchio: o trasmette le nozioni minime (in quinta, la storia dell’Ottocento e del Novecento) o fa i suoi lavori di gruppo. Ma per fare i lavori di gruppo deve rinunciare a trattare buona parte dell’Ottocento e del Novecento (in verità, al Novecento ci si arriva di striscio e solo fino alla seconda guerra mondiale, se si è proprio bravi). Un lavoro in modalità attiva, infatti, richiede molto più tempo e soffre delle continue interruzioni a fine ora di lezione. Per realizzarlo, occorrerebbe modificare l’organizzazione didattica e assegnare molte più ore alle lezioni. Perciò finirà come già verificato in altri Paesi: gli studenti sapranno tutto di un paio di argomenti (magari anche 5 o 6, non di più in 30 ore) e niente di tutto il resto. E secondo te questo è meglio?

Smarty

Meglio poche cose, ma fatte bene, almeno si impara ad imparare. Così almeno studieranno volentieri e saranno pronti per il mondo del lavoro.

Sofia

E qui ti sbagli di grosso. Negli Stati Uniti la didattica per competenze è stata introdotta nel 2001 con enfasi da una legge votata in maniera bipartisan dal Congresso, e con essa i test di verifica delle competenze in lettura e scrittura, ai quali erano subordinati i fondi alle scuole. Risultato: un disastro totale. Sono aumentate le disuguaglianze fra ricchi e poveri e peggiorate le abilità di comprensione dei testi. Leggere non è come andare in bicicletta. Non basta saper pedalare: per capire un testo bisogna poter contare su un solido bagaglio di conoscenze. Inoltre, il sistema dei test ha introdotto la pratica perversa del teaching for testing. Si studia solo ciò che serve per superare il test, alla faccia delle sbandierate conoscenze, che finiscono nella spazzatura. La moneta cattiva scaccia quella buona e nella scuola sta avvenendo lo stesso.

Smarty

Come sei disfattista… Noi non siamo gli Stati Uniti. Da noi le conoscenze sono ancora ben presenti nei curricoli della scuola pubblica.

Sofia

Come sei ingenuo tu, invece! Quello che io vedo è che questa faccenda della didattica per competenze è l’ultima spallata neoliberista alla scuola della Costituzione. Non potendola eliminare del tutto, dopo averla strangolata economicamente, aver umiliato i suoi docenti, averla privata di tempo, risorse, edifici sicuri e di un numero ragionevole di alunni per classe, e dopo il tentativo di regionalizzarla per indebolirla ulteriormente, ora le danno la mazzata finale, sfilandole da sotto le conoscenze. Non ci sarà semplicemente più il tempo di trasmetterle! E chi lo farà sarà un vecchio arnese da rottamare quanto prima. Ma gli studenti, sicuramente saranno più sereni e felici a scuola e i genitori avranno meno crucci per i brutti voti degli insegnanti cattivoni. Felici e ignoranti. Ma competenti, e molto, molto smart.

Smarty

Sai che ti dico? Sei proprio una lagna. Sei troppo attaccata alle tue polverose Conoscenze. Non riesci proprio ad accettare il cambiamento…

Sofia

Avrei invece molto da insegnarti, caro collega sprovveduto. Ma continuerò a modo mio finché sarò nella scuola. La libertà di insegnamento me la tengo ben stretta e la difenderò con le unghie e con i denti. A differenza di molti esponenti della classe politica, sono ancora fedele alla Costituzione e non prenderò in giro i miei allievi con uno specchietto per le allodole. A proposito: dato che sulla pagina Facebook Dillo a Fioramonti, creata da La Tecnica della Scuola, sono arrivati moltissimi suggerimenti per il nuovo Ministro dell’Istruzione, mi aggiungo al coro con quattro richieste: Che cosa aspetta, egregio Ministro, a dare alla scuola le risorse economiche necessarie? Sarebbe più urgente che non ci cadessero gli edifici sulla testa e che avessimo uno stipendio dignitoso. Perché poi non ridare all’insegnamento della Storia lo spazio che merita? I nostri studenti sanno poco di tutto e niente del Novecento. Perché non fermarsi un momento a ripensare la didattica per competenze, dati i risultati degli USA e data la libertà di insegnamento? Anche Lei ha giurato fedeltà alla Costituzione. E soprattutto: perché non mi manda in pensione? Ne ho abbastanza di vedere l’istruzione pubblica svilita in questo modo. Grazie, Ministro. Chissà se almeno a Lei importa davvero della cultura nel nostro splendido e martoriato Paese. Si ricordi che è la scuola ad avere il compito di trasmetterla alle generazioni future, ma per poterlo fare non deve perderla per strada.

Articolo pubblicato il 16 ottobre 2019 sul sito di Sovranità Popolare.

Rebis: il risveglio del Femminile spirituale

Articolo pubblicato l’8 ottobre 2019 su Olistic News.

Il Rebis (dal latino Res bina, cosa doppia), è il simbolo alchemico dell’unione degli opposti. Gruppo di studio informale, nato da un’idea di Patrizia Scanu, psicologa, Gestalt Counsellor e docente al liceo delle Scienze Umane di Alba in Piemonte, si propone di dare spazio alla riflessione sulla profonda crisi globale che sta attraversando questo mondo prodotto da decenni di ideologia neoliberista. Se ne ricercano le cause nel secolare squilibrio fra maschile e femminile, che ha prodotto una frattura nell’integrità della persona umana, fatta di corpo, mente e spirito, e ridotto al lumicino la componente spirituale.

Il gruppo di lavoro, assolutamente laico e dialogico, si propone di dare vita ad un vasto movimento di opinione che stimoli la presa di coscienza collettiva dei valori e delle qualità femminili, schiacciati e silenziati da secoli di repressione, soprattutto religiosa.

Rebis è un gruppo di persone, uomini e donne, che intendono riflettere sul modo in cui lo sviluppo di una spiritualità di qualità femminile possa contribuire ad elevare il livello delle coscienze e di conseguenza della vita civile. Il Femminile qui è da intendersi in senso energetico, come femminile interiore, presente sia nelle donne sia negli uomini.

“Siamo convinti che non si potrà cambiare nulla a livello politico finché le persone non matureranno una consapevolezza profonda della propria natura spirituale, intesa nel senso più alto e laico del termine. E dell’essenza spirituale, che in sé non è né maschile né femminile, una componente essenziale, quella femminile, è stata a lungo soffocata e repressa. Pensiamo ci sia bisogno di recuperare l’equilibrio perduto per ricostituire l’integrità dell’essere umano. Senza un riequilibrio fra le due energie, il maschile e il femminile spirituale, questo mondo è condannato. Solo ritrovando l’integrità della propria essenza si può pensare di costruire un mondo più evoluto, superando le bassezze dell’attuale contesto politico e le dolorose lacerazioni di una società costruita sulla competizione e sul possesso”.

Il gruppo di studio non ha niente a che fare con il movimento femminista né si propone di creare una “riserva” per sole donne. Qui le donne e gli uomini hanno un ruolo assolutamente paritario. Rebis dovrebbe essere la casa degli uomini che hanno fatto pace con il femminile e delle donne che, valorizzando il femminile, hanno fatto pace con il maschile. Tutti – uomini e donne – nel rispetto delle innegabili differenze, hanno da guadagnare dallo sviluppo integrale della propria coscienza spirituale.

Lo scopo del gruppo di studio è proporre modelli alternativi di comportamento personale, di gestione delle relazioni fra persone, di azione civile e politica che aiutino le persone a uscire dall’isolamento e dalla competizione neoliberista e a costruire una società migliore ed evoluta. Non si tratta solo di discutere, ma anche e soprattutto di agire e di imparare. Le attività si declinano in organizzazione di eventi, corsi, seminari e momenti d’incontro. Si prevede la promozione di iniziative sociali e politiche, intendendo per “politico” ciò che riguarda la polis, ovvero al vita della comunità dei cittadini. Si occuperà di formazione e informazione. Solo dallo sviluppo della consapevolezza dell’intero potenziale umano può nascere, infatti, una visione del futuro fondata sui valori autenticamente spirituali che ispirarono la Costituzione italiana del 1948.

A quei valori di uguaglianza sostanziale, solidarietà, partecipazione, cooperazione, bellezza, responsabilità, giustizia, traditi da decenni di politiche asservite all’interesse di pochi e subordinate al dogma dei mercati, Rebis s’ispira per dare sostanza civile agli argomenti scelti per la riflessione. Dimensione spirituale e dimensione politica sono interdipendenti, sebbene Rebis non sia né un movimento politico né un gruppo d’ispirazione religiosa.

È un gruppo aperto alla collaborazione di uomini e donne altamente motivati a compiere questo percorso personale e collettivo di trasformazione delle coscienze, che condividano questa visione di fondo e siano disponibili a dare un contributo di idee e di azione al lavoro del gruppo. Persone belle e validissime si stanno impegnando con entusiasmo a produrre idee e progetti per questo gruppo. Ne puoi far parte anche tu. Puoi iscriverti al Gruppo Rebis su fb oppure scrivere una mail a grupporebis chiocciola gmail.com.

Patrizia Scanu

Condizione femminile o condizione del femminile? Un cambiamento di prospettiva

Quando si parla di condizione femminile, sembra naturale pensare alle donne e alle loro battaglie secolari per ottenere pari dignità e diritti rispetto agli uomini. Senza scomodare le notizie a volte tremende che arrivano da Paesi lontani, nei quali l’integrità, la libertà, la salute e i diritti civili, politici e sociali delle donne vengono clamorosamente ignorati tuttora, è istruttivo ricordare come secoli di supremazia maschile abbiano costantemente relegato le donne in posizione subalterna anche qui in Europa. L’emancipazione femminile, faticosa, tardiva e mai completata, permise alle donne, prima equiparate ai bambini e ai deboli di mente, considerate emotive, volubili e inaffidabili ed escluse dai luoghi del potere, dai gradi più elevati dell’istruzione e dalle professioni “maschili”, di occupare nella società un posto meno marginale e ruoli più autonomi e significativi.

Gli infiniti abusi subiti dalle donne per millenni, il trattamento degradante a cui esse furono spesso sottoposte anche nei luoghi di lavoro, la privazione della libertà di scelta, la svalutazione del loro ruolo sociale e della loro intelligenza, le disuguaglianze di cui furono vittime, spesso vissute con senso di ingiustizia e di risentimento, la repressione delle loro qualità interiori, le umiliazioni continue, la costrizione all’obbedienza, al sacrificio e alla sottomissione in famiglia sono eredità pesanti e dannose, conservate e tramandate dalla memoria collettiva. Ce le portiamo dentro di noi, nessuno escluso, come memoria genetica, familiare, sociale. Tutti abbiamo alle spalle nonne, prozie, bisavole, antenate di innumerevoli generazioni dietro di noi che hanno vissuto stupri, violenze, soprusi di ogni tipo, che si sono sacrificate per i figli, che hanno rinunciato a se stesse, che hanno dovuto sottomettersi, adeguarsi, arrendersi, sopportare l’ingiustizia, lo svilimento, la sopraffazione, l’assenza di diritti.

E poiché, anche e soprattutto quando è inconsapevole, la memoria genetica agisce nel profondo di noi stessi e costituisce il patrimonio inconscio di esperienze con il quale veniamo al mondo e dal quale attingiamo ogni giorno per affrontare il quotidiano, delimitando il repertorio delle nostre azioni libere e volontarie, ad uno sguardo più attento la condizione femminile ci porta a riflettere sulla condizione del femminile. Non si tratta della stessa cosa: la condizione del femminile non coincide con la condizione delle donne, ma con lo stato di dolorosa repressione del principio spirituale femminile che affligge tutti, uomini e donne, anche emancipate e liberate, in quanto tutti discendenti da una linea genetica materna e membri di una cultura, dunque portatori dell’eredità del vissuto delle generazioni precedenti. Un’eredità gravosa ed opprimente, che ci rende deboli, squilibrati e ignari delle enormi potenzialità della nostra natura e ci fa perpetuare lo schema della scissione interiore, della contrapposizione fra maschio e femmina che è frattura fra le due parti della nostra Coscienza spirituale.

Anche se non vogliamo e non sappiamo, infatti, conserviamo in noi il senso di ingiustizia, di fallimento, di impotenza, di frustrazione, di rancore, di paura, di rabbia, di colpa e di sacrificio delle nostre antenate e sabotiamo in questo modo le nostre vite, impedendoci di realizzare la pienezza del nostro essere. Non importa se siamo maschi o femmine, perché tutti abbiamo una madre e ce la portiamo dentro. Anche se umiliato e schiacciato, il Femminile rimane dentro di noi e aspetta di essere liberato. La degradazione delle donne ha avuto come risultato la repressione del Femminile in ciascuno di noi e un enorme danno alla nostra integrità. Umiliando la donna, l’uomo ha assurdamente umiliato metà di se stesso. Umiliando il proprio femminile interiore, ha ulteriormente svalutato il femminile delle donne e creato un mondo invivibile. Molti uomini disprezzano nelle donne ciò che rinnegano in se stessi. Subendo questa umiliazione, le donne hanno perso il contatto con il loro Maschile spirituale e spento il loro Femminile interiore. La supremazia dell’uno sull’altro è un’inutile vittoria contro se stessi.

Abbiamo tutti bisogno di integrità, di essere interi, ciascuno a modo suo. Certamente le donne hanno un più facile accesso al Femminile (sempre che non sia stato completamente schiacciato) e gli uomini al Maschile, ma hanno bisogno dell’altra metà per essere se stessi, ovvero esseri divini, e non deboli e passivi epigoni del passato della stirpe. Ma poiché la condizione del Femminile spirituale è ora penosa per entrambi, da lì bisogna incominciare. Rebis nasce proprio con questa finalità: risvegliare e rigenerare il Femminile spirituale per rendere possibile a tutti noi il recupero di tutte le energie e le potenzialità smarrite in un assurdo e devastante conflitto, che ci degrada e ci consegna ai meccanismi della nostra mente animale. Dove non c’è Coscienza spirituale, infatti, resta attiva solo la nostra parte animale umana e vengono meno libertà e consapevolezza.

Che il risveglio del Femminile (spirituale, non animale) sia necessario per trasformare questo mondo in qualcosa di meglio, è palese in ogni ambito della vita associata: nella politica, dove vigono incontrastate le leggi della forza, della violenza e della sopraffazione, proprie del maschile animale; nell’economia, dove la diffusione dell’ideologia neoliberista, finalizzata alla lotta di classe dei ricchi e dei potenti, anziché al bene comune, ha infettato le menti con i germi dell’individualismo, della competizione, della legge del più forte, anch’essi propri del maschile animale; nella società, nei mass media, perfino nella scuola, dove ogni cura viene posta nel farcire le menti addormentate di un sapere standardizzato, funzionale al mantenimento di un basso livello di coscienza e a stili di comportamento opposti ai principi di etica, responsabilità e giustizia, propri della Coscienza spirituale.

In una società che dà valore al femminile spirituale, si dà spazio alla cooperazione, all’equità, all’integrità, al rispetto, alla consapevolezza, alla partecipazione, alla cultura, all’ambiente, al bene comune, alla bellezza, ai valori più elevati. Non è una prospettiva spiacevole né astratta, perché ciò che facciamo agli altri, lo facciamo a noi stessi, che ci piaccia o no. Si tratta solo di rendersene conto e di diventare esseri completi e cittadini sovrani e consapevoli. Tanto non ci salveremo altrimenti, né come individui né come umanità. Continuare a sabotare noi stessi ci porterà all’autodistruzione. Vale perciò la pena di darci da fare a ripulire le lordure del passato e a lasciarcelo definitivamente alle spalle. Rivitalizzare il Femminile vorrà dire allora ritrovare finalmente noi stessi e il sentiero smarrito del nostro ritorno a casa.

Oltre il neoliberismo. Dal darwinismo sociale alla società evoluta

Parlare di crisi della democrazia a livello globale significa parlare di neoliberismo. Come già avvertiva il sociologo ungherese Karl Polanyi negli anni ’40 (La grande trasformazione, 1944), infatti, il neoliberismo, con i suoi miti di libertà d’impresa, competizione, privatizzazione, deregolamentazione, non è compatibile con la democrazia in generale e, aggiungo io, con la Costituzione italiana in particolare, fondata com’è sui principi di sovranità popolare, di diritto al lavoro, di uguaglianza sostanziale, di partecipazione e di solidarietà.

Il neoliberismo ha fatto fortuna, anche nelle masse, equivocando sulla parola “libertà”. Chi non è sensibile alle infinite promesse di una parola tanto pregnante? Chi non vorrebbe essere libero? Il problema è però è duplice: quale libertà? E la libertà di chi? La visione liberale dello Stato si fonda sulla difesa delle libertà civili e politiche: libertà di coscienza, di riunione, di associazione, di espressione eccetera. Esistono, però, osserva Polanyi, anche le libertà negative: la libertà di sfruttare i propri simili, di sottrarre all’utilizzo comune scoperte tecnico-scientifiche per proteggere interessi privati, di trarre profitti da calamità collettive, di inquinare l’ambiente. Nell’economia capitalista, queste due forme di libertà sono i due lati della stessa medaglia.

Si potrebbe ipotizzare, continua Polanyi, una società futura nella quale le libertà “positive”, accompagnate da una regolamentazione adeguata, possano essere estese a tutti i cittadini. “Regolamentare” vuol dire porre limiti ai privilegi di una minoranza, proteggere i più deboli dal potere soverchiante di chi detiene la proprietà, correggere gli squilibri economici e sociali, controllare e sanzionare i comportamenti dannosi alla collettività, permettere a tutti i cittadini, anche a quelli svantaggiati, di esercitare le libertà “positive”. Questa società futura sarebbe libera e giusta insieme. Precisamente quello che intendeva Carlo Rosselli con la sua idea di “socialismo liberale”.

Ma ad impedire questo esito (la diffusione della libertà) è proprio l’”ostacolo morale” dell’utopismo liberale (quello che chiamiamo “neoliberismo”, appunto), di cui lui riconosceva il massimo esponente nell’economista Von Hayek. La visione neoliberista è utopica perché predica l’assenza del controllo e dell’intervento dello Stato in ambito economico e sociale, proprio mentre invoca l’esercizio della forza e anche della violenza dello Stato a difesa della proprietà. Detto in parole povere, per il neoliberismo lo Stato è al servizio della proprietà individuale e della libera impresa, cioè di quei pochi che non hanno bisogno di incrementare il proprio reddito, il proprio tempo libero e la propria sicurezza e agisce a svantaggio delle libertà di tutti gli altri. La libertà neoliberista è solo prerogativa dei ricchi (anche se a parole è disponibile a tutti) e non può essere estesa a tutti, perché questo minaccerebbe la proprietà. Chi è povero lo è per colpa sua ed è solo un perdente nella competizione per la ricchezza. La libertà è in sostanza la libertà di arricchirsi senza vincoli né regole.

Il neoliberismo (l’utopismo liberale), concludeva Polanyi, è intrinsecamente e incorreggibilmente antidemocratico e autoritario, perché piega lo Stato a difendere gli interessi di una minoranza a danno della maggioranza. Non per nulla il primo esperimento di Stato neoliberista fu il Cile di Augusto Pinochet, dove “libertà” significava azzeramento dei sindacati e dei diritti delle comunità, privatizzazioni selvagge, liberalizzazioni finanziarie e repressione delle libertà civili. Qui il neoliberismo si sposa con l’autoritarismo. 

Ma c’è anche un modo meno cruento per effettuare un colpo di Stato: corrodere un giorno dopo l’altro, per decenni, i diritti e i redditi dei cittadini, asservirli al potere finanziario, vincolarli a norme-capestro che li rendano schiavi di interessi estranei, modificare la Costituzione a danno della sovranità popolare, indebolire i lavoratori e i sindacati, assecondare gli interessi dei più forti, non intervenire a ridurre le disuguaglianze, privatizzare i beni pubblici, ridurre la spesa sociale, distrarre continuamente l’attenzione pubblica con falsi problemi e individuare sempre nuovi bersagli per la rabbia popolare, colpevolizzare i cittadini per la loro condizione e controllare i mass-media, in modo che veicolino continuamente la visione che più fa comodo ai manovratori (quella che Marcello Foa ha chiamato “il frame”, la cornice), martellare per anni e decenni i cittadini con un linguaggio economicista pieno di concetti come libertà d’impresa, debiti e crediti, competizione, flessibilità eccetera – insomma costruendo un’ideologia che giustifichi e renda accettabile la progressiva riduzione in schiavitù di interi popoli, tenendone a bada l’inevitabile scontento con il senso di colpa, la paura e la menzogna.

Questo è ciò che è successo da noi in questi ultimi decenni. Questo è l’imperdonabile tradimento della Costituzione e dei suoi valori realizzato da una classe politica avida e asservita a gruppi di potere nazionali e sovranazionali che l’hanno telecomandata a danno nostro. Il neoliberismo non è solo una teoria economica, ma un modello complessivo di società, sorretto da un poderoso e contraddittorio apparato ideologico, incompatibile con la democrazia, come sono incompatibili con la democrazia i monopoli privati di beni collettivi, la subordinazione degli Stati sovrani ai potentati economico-finanziari e al mercato, la distruzione dei diritti sociali, il gigantesco travaso di ricchezza dai poveri ai ricchi del pianeta in cui consiste di fatto questo modello di globalizzazione. Il filosofo John Rawls sosteneva che una disuguaglianza è accettabile solo se migliora anche le condizioni di chi ha di meno. La ricchezza non è un male, ma lo è l’ingiusta distribuzione di essa. La libertà senza giustizia sociale è solo un guscio vuoto e uno specchio per le allodole. Questo dice in sostanza la nostra Costituzione.

A questa ideologia competitiva, oligarchica, autoritaria e neofeudale costruita in gran parte a tavolino nel back office del potere, bisogna necessariamente contrapporre una visione del mondo e dell’uomo diversa e opposta, una nuova antropologia. L’ideologia neoliberista ha avvelenato le coscienze. Ci ha rappresentato un modello di uomo egoista, competitivo, materialista, cinico, aggressivo, prevaricatore, individualista e soprattutto isolato. Ci ha fatto perdere il senso dell’interconnessione e dell’interdipendenza fra di noi e con l’Universo e ci ha fatto credere che il denaro fosse il fine e il metro di giudizio di ogni attività umana. Ci ha colonizzato l’anima con un linguaggio arido e insensato, che sotto l’apparenza del rigore scientifico ha inquinato tutto ciò che di più sacro e sano abbia prodotto la coscienza umana. Sul piano politico, ci ha regalato questa Europa delle élites, anziché dei popoli, nella quale le decisioni più importanti sono prese da organi non elettivi e il Parlamento non ha potere di iniziativa legislativa; sul piano economico, ci ha costretti alle privatizzazioni, all’austerity e alla schiavitù di una moneta straniera sempre razionata, detenuta da enti sottratti al controllo democratico e legibus soluti quali la BCE; sul piano sociale ha compresso il Welfare e calpestato i diritti, prodotto un numero enorme di disoccupati e sottooccupati, impoverito e umiliato la scuola, subordinando l’istruzione all’impresa, aumentato ovunque la povertà, la fuga dei cervelli, la disgregazione del tessuto sociale.

L’ideologia neoliberista è la versione attuale del darwinismo sociale ottocentesco, cinico e reazionario, che trasferisce indebitamente all’ambito sociale la teoria biologica della selezione naturale, ovvero della sopravvivenza del più forte. Nella prospettiva del darwinismo sociale, le differenze sociali sono naturali e corrispondono a differenze di capacità e di qualità umana. Chi è ricco, lo è per suo merito e chi è povero lo è per suo demerito, perciò è giusto che chi è migliore abbia la meglio, nella lotta per la sopravvivenza, e che lo Stato si astenga dall’intervenire a correggere le disuguaglianze, anch’esse “naturali”. La società appare dunque il teatro di una competizione senza regole, nella quale vince il più adatto, abbandonando al proprio destino quelli che lo scrittore Giovanni Verga chiamava “i vinti”. Come ogni ideologia, il darwinismo sociale ha la funzione di legittimare interessi particolari e di mascherare una palese ingiustizia.

Per guardare oltre questa deriva antidemocratica, il cui prezzo altissimo è pagato dai poveri di tutto il mondo, bisogna guardare non solo a mezzi opportuni, come scelte economiche ispirate a teorie post-keynesiane, l’esercizio della sovranità monetaria, l’abolizione dell’equilibrio di bilancio in Costituzione, la creazione di banche pubbliche, ma anche e soprattutto a fini e a valori diversi.

Bisogna innanzitutto ricostituire un equilibrio fra energia maschile e femminile, dentro ciascuno di noi e nella società intera. Parlo del maschile e del femminile interiori, presenti in ogni individuo umano, a prescindere dal sesso. La logica della competizione spinta e del gioco a somma zero è l’esasperazione estrema dell’approccio maschile al mondo, fondato sul predominio, sulla logica del branco, sulla lotta per la supremazia e per il possesso, sulla violenza. Questa prospettiva unilaterale impoverisce l’essere umano, maschio o femmina che sia, e ne limita le potenzialità evolutive. Se c’è qualcosa di cui il nostro mondo attuale soffre, soprattutto in Occidente, ma non certo solo qui, data la millenaria repressione del femminile condotta con tutti i mezzi, cominciando dalla religione, è proprio la svalutazione dei valori femminili e la loro espunzione dall’orizzonte della politica e della cultura. Appartengono alla visione femminile del mondo l’empatia, i sentimenti profondi, la cura, la riparazione, la costruzione dell’armonia sociale, la sensibilità, la cooperazione, l’intuizione, la connessione con la natura, con il mistero della vita e con la trasformazione, la pace. Le ricchezze di un mondo che riscopre il femminile sono assai più preziose del denaro: sono le ricchezze delle relazioni umane autentiche e profonde, della salute come completo benessere psico-fisico, della bellezza dei tesori artistici e naturali, della condivisione e della cooperazione, della nostra crescita umana e spirituale, dell’agire costruttivo nel lavoro, nella famiglia e nelle attività sociali, dell’armonia di una società meno lacerata da disuguaglianze, egoismi e sopraffazione, di un ambiente naturale pulito e rispettato.

Per una società evoluta, che ci permetta di superare il darwinismo sociale e di evitare la distruzione del pianeta e della nostra specie, ci serve sviluppare una coscienza più ampia e integrata, aperta ai valori di libertà (di tutti, non solo di alcuni), solidarietà sociale, giustizia, bene comune, bellezza, felicità, conoscenza, saggezza, diritti, rispetto, consapevolezza, responsabilità, elevazione, cooperazione, creatività. Finché la politica li ignorerà, finché la dimensione spirituale, laicamente intesa, sarà esclusa dalle stanze del potere e la politica sarà solo “sangue e merda”, secondo le parole del socialista Rino Formica, continueremo a trovarci in fondo al sacco. Ma perché riescano ad arrivare nelle stanze del potere occorre un salto evolutivo della coscienza ed una pedagogia civile che lo renda possibile. Ci servono maestri, esempi e modelli coraggiosi e determinati. La rinascita del femminile non esclude affatto le qualità maschili di forza, coraggio, determinazione e lotta. Abbiamo davanti una fortezza che appare inespugnabile, fatta di controllo pressoché completo dei media, dell’economia, dell’istruzione, dell’università e della ricerca scientifica, ma che sente il bisogno di difendersi con la propaganda, la censura e il controllo autoritario. Questo è un segno di debolezza. Nessun regime è eterno, nemmeno il neoliberismo. Ma spesso ciò che appare un esercizio di forza si mostra anche come un punto debole. La legge del più forte è drammaticamente insufficiente per governare esseri multidimensionali che aspirano alla felicità. Perciò non bisogna mollare. Le vere rivoluzioni sono quelle che avvengono nelle coscienze e sono fatte di libero pensiero, di senso critico, di ostinata difesa dei valori più alti, di intelligenza e di tenacia.

A tutti i presenti, ai politici di ogni provenienza, ai cittadini desiderosi di un cambiamento radicale, rivolgo quindi l’invito a riflettere e poi a schierarsi, prendendosi la responsabilità di agire in prima persona. Non ci servono più le vecchie ideologie, gli “ismi” che hanno fatto il loro tempo. Ci servono invece una visione del futuro ed una profonda consapevolezza dei bisogni dell’essere umano. Non c’è azione politica senza dei fini chiari e meritevoli. E soprattutto, ci serve ancora quel miracolo di equilibrio democratico che è la nostra Costituzione del ’48, prima delle modifiche posticce che l’hanno sfigurata. Se Margaret Thatcher diceva che l’economia è il mezzo e che lo scopo è cambiare il cuore e l’anima, è dal cuore e dall’anima che dobbiamo cominciare per riprenderci, con l’espressione di Carlo Rosselli, giustizia e libertà.

Link all’intervento videoregistrato da Radio Radicale: Oltre il neoliberismo. Dal darwinismo sociale alla società evoluta

Una scuola da rifare. Riparare i danni delle riforme neoliberiste con la moneta della sovranità

Mentre nei palazzi del potere si parla di regionalizzare in ordine sparso il sistema scolastico, completando dal basso quel lavoro di destrutturazione della scuola della Costituzione che è stato iniziato negli anni ’80 nei circoli europei degli industriali per realizzare la mutazione neoliberista della società italiana ed europea, di cui ho parlato nel numero precedente, nessuno sembra chiedersi che cosa servirebbe davvero alla scuola italiana. Ma per rispondere a questa domanda, occorre partire dall’analisi dei danni prodotti da decenni di mancate riforme o di riforme sbagliate. Prescrivere ricette senza aver fatto una diagnosi non cambierà certamente le cose in meglio.

Come uno tsunami, la stagione buia e distruttiva delle riforme neoliberiste attuate negli ultimi 20 anni ha lasciato dietro di sé danni e macerie. La scuola italiana aveva bisogno di riforme, ma di tutt’altro segno, per realizzare le finalità previste dalla Costituzione. Ora con questi danni e con le relative disfunzioni si deve fare i conti. Possiamo riassumerli così: mancanza di risorse adeguate, degrado dei contenuti dell’insegnamento, assenza di partecipazione democratica al processo riformatore, perdita di dignità e di ruolo sociale dei docenti, destrutturazione delle esperienze didattiche più riuscite realizzate in precedenza (come la scuola elementare a moduli e a tempo pieno e le sperimentazioni nei licei), discontinuità fra ordini di scuola, inadeguato sistema di reclutamento degli insegnanti, subordinazione della scuola al mondo del lavoro (con la riduzione al minimo del fondamentale ruolo emancipante dell’istruzione), insufficienti investimenti negli edifici e nelle strutture scolastiche (palestre, laboratori, biblioteche), dimensioni eccessive degli istituti scolastici, spesso pure privi di dirigente, eccessivo affollamento delle aule, riduzione delle ore di lezione per materie fondamentali come Italiano e Storia, compressione degli spazi di autonomia professionale dei docenti, aumento della dispersione scolastica, diminuzione dei livelli di preparazione in uscita, introduzione assurda dei licei quadriennali e abolizione quasi completa delle bocciature nelle scuole primarie e secondarie inferiori (ulteriori fonti di risparmio), ingresso dei privati nella scuola pubblica, fuga dei cervelli.

Il tutto, in un contesto nazionale che vanta il tristissimo primato di un 70% di adulti analfabeti funzionali, come rilevava il linguista Tullio De Mauro (Storia linguistica dell’Italia repubblicana, Laterza, Bari 2014) che faticano a comprendere un semplice testo e che risultano del tutto impreparati alla comprensione della complessità enorme della società contemporanea.

Preso atto che questa operazione sciagurata e intenzionale si inquadra nel più generale processo di asservimento economico-politico del nostro Paese e di svendita delle nostre ricchezze che ha preso l’avvio dagli anni ’80 e che si continua a chiamare falsamente “crisi”, come se ne esce?

Non esistono certo ricette semplici per problemi così complessi. Il faro, come sempre, è la Costituzione. E la nostra è una Costituzione di ispirazione keynesiana, che mette nell’articolo 1 il diritto al lavoro e la sovranità popolare e nell’articolo 3 il principio dell’uguaglianza sostanziale, da realizzarsi con l’intervento dello Stato. L’articolo 34 ci ricorda che la scuola è aperta a tutti e che tocca allo Stato permettere ai capaci e ai meritevoli di raggiungere i gradi più alti dell’istruzione.

La prima riforma da attuare è perciò investire massicciamente nella scuola. Nessuna ripresa, nessuna crescita è possibile senza partire da qui. Anche se ci è stato raccontato falsamente che non ci sono i soldi e che occorre “razionalizzare” (cioè tagliare) la spesa pubblica, ci sarebbe il modo di ridare subito ossigeno alla scuola pubblica e di restituirle le risorse indispensabili per qualunque cambiamento positivo. Lo ha spiegato l’economista Nino Galloni.

Basterebbe ricorrere alla moneta della sovranità, quella moneta che lo Stato può emettere quando vuole e di cui il Paese ha bisogno come un assetato nel deserto, dato che la famosa crisi non è certo crisi di scarsità di beni, ma di scarsità di denaro circolante. Se invece di realizzare una sorta di gabbia salariale su base regionale, come ipotizza l’accordo stretto dal governo Gentiloni con le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, si concludesse con il comparto scuola un contratto collettivo nazionale finalmente dignitoso, con il quale gli aumenti consistenti di stipendio e i fondi alle scuole fossero pagati in Stato-note o biglietti di Stato validi solo sul territorio nazionale, emessi a costo zero, avremmo una serie di cospicui vantaggi per tutti: avremmo finalmente i mezzi per valorizzare l’autonomia scolastica e migliorare la qualità della scuola; ridaremmo dignità ai docenti ormai impoveriti da 10 anni di blocco stipendiale; faremmo “girare l’economia”, visto che un reddito maggiore si tradurrebbe in maggiore capacità di spesa e infine lo Stato ridurrebbe il debito pubblico, perché la moneta della sovranità è moneta non a debito.

Poiché questa è cosa nota e ciononostante nessun governo la realizza, la domanda iniziale va perciò riformulata: chi non vuole che l’Italia eserciti la sua sovranità monetaria e decide che debba morire di asfissia? perché? e quando aspettiamo a riprendercela, sulla base dell’articolo 1 della Costituzione? La nostra scuola – e con essa il futuro dei nostri figli – è ormai al lumicino. Dobbiamo esserne consapevoli e prenderci le nostre responsabilità.

Articolo pubblicato su Sovranità popolare, n° 2 (2019).

Si può parlare di spiritualità (laica) in politica? Ovvero: come decolonizzare le menti dall’ideologia neoliberista.

Ambrogio Lorenzetti, “Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo” (1338-39), conservato nel Palazzo Pubblico di Siena.

Senza le strade interiori dello spirito non si può camminare eretti e con dignità sulle strade esteriori del mondo (Ernst Bloch).

La riflessione svolta nei due precedenti articoli (La perversione neoliberista e la legge della “Buona Scuola” e Ce lo chiede l’Europa? Le politiche scolastiche e la Costituzione neoliberista) su neoliberismo e riforme della scuola ha messo in luce il complesso retroterra ideologico che ha governato le riforme della scuola in Italia dagli anni ’90 in poi, così come il processo della globalizzazione, della formazione dell’UE, delle politiche economiche e sociali ispirate all’austerity, alle privatizzazioni e allo “Stato minimo”.

Considerata con il senno del poi, la cosiddetta “fine delle ideologie”, seguita al crollo del comunismo sovietico, sembra per certi versi presentarsi come la fine del pluralismo delle idee, nel nome di un pensiero unico tanto più insidioso quanto meno percepito come ideologico.

Proprio la capacità mimetica del neoliberismo, che si presentò dagli anni ’70 e ’80 come un sapere scientifico, esposto sotto forma di complesse e apparentemente indiscutibili dimostrazioni matematiche, ne ha garantito la diffusione come sapere “oggettivo” e neutrale. In un mondo nel quale, in assenza di altri validi punti di riferimento, la scienza appare (più o meno ragionevolmente) l’unico sapere certo e l’unica via di accesso alla verità, le brillanti teorizzazioni di Friedman e colleghi potevano passare per verità assiomatiche.

Non si deve mai sottovalutare il potere dell’ideologia, che, come ci ha insegnato Marx, altera la percezione stessa della realtà, distorcendone senso e contorni e producendo una falsa coscienza. Il neoliberismo ha fatto dell’economia il perno immobile intorno al quale girano tutte le altre attività umane e il metro di giudizio di tutti i valori. Quanto ciò sia assurdo, appare chiaro non appena ci si rifletta con mente distaccata, ma proprio questo distacco è la condizione psicologica difficile da conquistare, immersi come siamo in un mondo simbolico interamente dominato e colonizzato da questa unilaterale visione del mondo.

Come per un pesce è difficile riconoscere di essere immerso nell’acqua, perché non conosce altre condizioni, per noi è difficile riconoscere di avere interiorizzato in profondità una concezione tanto malata e maligna del mondo e dei rapporti umani, finché non ne immaginiamo altre possibili. Liberarsene è un lavoro autenticamente spirituale, che richiede capacità di distacco, come si è detto, senso critico e differenti valori di riferimento. Se, come disse Margaret Thatcher, “l’economia è il mezzo; l’obiettivo è cambiare il cuore e l’anima”, è proprio dai sentimenti e dall’anima che dobbiamo partire per invertire la rotta.

Guardare con distacco e senso critico la torsione neoliberista che ha sfigurato il nostro vivere civile, snaturando i valori democratici, solidaristici e partecipativi alla base della Costituzione italiana del ’48 (prima delle successive modifiche peggiorative) richiede prima di tutto l’attitudine a vedere che cosa è cambiato rispetto al testo del ’48 e come è stata svuotata di contenuti la nostra bella Carta fondamentale della Repubblica, per mezzo di un vero e proprio colpo di stato strisciante e subdolo.

Con l’aiuto del costituzionalista Mauro Scardovelli, possiamo provare a ricostruire i primi articoli della Costituzione neoliberista realmente vigente, che non è quella scritta, ma quella tacitamente presupposta negli interventi dei politici, della Commissione europea, nei mass media e propagandata da decenni con uniforme e concorde ripetitività. Vi invito a confrontarla con il testo costituzionale del ’48.

1. L’Italia è una Repubblica oligarchica, fondata sulla proprietà e sull’iniziativa privata. La sovranità appartiene ai mercati, che la esercitano nelle forme e nei limiti della Costituzione, adeguata e interpretata alla luce dei Trattati Europei.

2. La Repubblica, una e indivisibile, aderisce alla Comunità economica europea, e favorisce tutte le cessioni di sovranità, monetaria, economica e finanziaria, necessarie alla creazione del mercato comune e della moneta unica.

3. In armonia con i Trattati Europei, la Repubblica attua la libera circolazione di capitali, merci, persone e servizi, e promuove le condizioni che rendono effettiva un’economia di mercato fortemente competitiva, funzionale all’incremento e alla concentrazione di produzione e ricchezza.

4. Fatta salva la stabilità dei prezzi, ovvero la bassa inflazione, e il pareggio di bilancio, la Repubblica, in cooperazione con gli altri membri dell’Unione, mira a favorire la piena occupazione, il progresso sociale e la tutela dell’ambiente.

Commento: il forte contenimento dell’inflazione (non oltre l‘1,5% in più rispetto ai paesi economicamente più forti dell’Unione), è obiettivo primario e non derogabile. Il livello di piena occupazione va inteso nei limiti di questa prescrizione. Ogni anno la Commissione Europea, organo non elettivo, stabilisce il livello minimo di disoccupazione compatibile con il detto obiettivo (nel 2015 era il 12% per l’Italia e il 20% per la Spagna). In altri termini, il modello socioeconomico Keynesiano, previsto nell’originario modello costituzionale, è abbandonato e sostituito con il modello socioeconomico neoliberista, sul quale si fonda la Comunità Europea.

5. La pace e la giustizia tra le nazioni, la protezione dell’ambiente e della famiglia, il diritto alla salute, all’istruzione, alla pensione, il diritto al lavoro, la tutela del risparmio popolare, sono in ogni caso subordinati agli interessi commerciali e finanziari, così come pattuito nell’ordinamento internazionale vigente. Le norme della Costituzione originaria, con esso contrastanti, sono implicitamente abrogate.

6. La Repubblica promuove una forza lavoro flessibile, adattabile alle esigenze delle imprese, in grado di rispondere ai mutamenti economici, al fine di realizzare gli obiettivi di cui sopra.

Commento:

La flessibilizzazione e la precarizzazione del lavoro sono gli strumenti necessari a perseguire le finalità dell’Unione che, in deroga al modello originario di Costituzione, considera primaria la tutela dei capitali rispetto alla tutela del lavoro. Cioè la tutela delle cose e della proprietà privata, rispetto alla tutela delle persone e del bene comune. Secondo il modello mainstream, la trasformazione dell’originario modello socioeconomico costituzionale Keynesiano del 1948, che prevedeva lo stato sociale, la protezione del lavoro, della salute, la scuola gratuita, la previdenza, si rende necessaria per allineare l’Italia e renderla competitiva nell’ambito dell’odierna forma di globalizzazione neoliberista. Compito dell’Unione è liberare le Costituzioni del dopoguerra, dagli elementi di socialismo, adatte alle condizioni storiche di allora, ormai superate, e incompatibili con le attuali condizioni del mercato globale.

I promotori di queste riforme, a loro avviso indispensabili, hanno assunto (come è noto in base a loro recenti esplicite dichiarazioni), la grave responsabilità storica di compierle in modo graduale, con attendismo, al di fuori del processo elettorale, cioè al di fuori del processo democratico, ben consci che il popolo non le avrebbe consentite.

Per la stessa ragione, per ottenere l’approvazione dei parlamenti nazionali, la formulazione degli attuali trattati europei è complicata, oscura e contraddittoria, praticamente incomprensibile. Ai pochi giuristi, competenti anche nel settore dell’economia, è chiaro che non si tratta di un cambiamento costituzionale, ma di un vero e proprio colpo di stato. Le modifiche apportate alla Costituzione del 1948, avvenute di fatto senza alcun serio dibattito parlamentare e pubblico, corrispondono ad una sostanziale abrogazione dei suoi principi ispiratori. Ovvero ad una sua decostituzionalizzazione. È stata cambiata la forma di Stato repubblicana che, in base all’art. 139, non è soggetta a revisione da parte di nessuna maggioranza.

(Mauro Scardovelli, Essenza della Costituzione originaria ed essenza della Costituzione neoliberista a confronto)

Solo sullo sfondo di una Costituzione del genere ci si può trovare in Europa a difendere un miserabile 2,4% di rapporto deficit/PIL, mentre la Costituzione originaria, quella vera, ci parla di sovranità popolare (anche monetaria), di diritti inviolabili, di bene comune, di eguaglianza sostanziale, di lavoro dignitoso e giustamente retribuito per tutti. Appare evidente a qualunque osservatore onesto che il pareggio di bilancio (art. 81, votato all’unanimità da Centro-Sinistra e Centro-Destra nel 2012 durante il governo Monti) è incompatibile con i contenuti della Costituzione, così come lo sono alcuni altri articoli che ne hanno storpiato la fisionomia originaria.

Lasciando un momento da parte il perché di tale scempio (le cui origini lontane e prossime sono spiegate benissimo nel volume Massoni di Gioele Magaldi e sintetizzate qui), in un movimento politico che vuole invertire la rotta che ha fatto fin qui andare alla deriva il nostro Paese e distrutto intere economie sul pianeta, bisogna chiedersi come se ne esce. Esiste una via d’uscita dalla caverna platonica, nella quale siamo incatenati come schiavi a guardare le ombre che si muovono sul fondo? Possiamo prospettare altri modi di concepire il nostro destino e quello del pianeta, mentre i media mainstream, la scuola, l’Università, la politica e le istituzioni sono quasi completamente colonizzate dal pensiero unico neoliberista che ci proietta in un mondo artificiale e darwiniano fatto di egoismo, di lotta per la sopravvivenza, di competizione, di durezza del vivere, di scarsità, di ingiustizia, di subordinazione di ogni diritto al mercato e di giochi a somma zero? Bastano le misure economiche, il braccio di ferro (vero o fasullo) sui parametri imposti dall’UE o qualche timido accenno alla ripresa della spesa sociale per riprenderci ciò che una classe dirigente eversiva ci ha tolto in questi tre decenni?

Penso francamente di no. Le vere rivoluzioni cominciano nelle coscienze. La sublime perfidia del neoliberismo sta nel farci perdere il senso della connessione: dentro di noi, fra corpo, anima e spirito; fuori di noi, con i nostri simili e con l’intero Universo. Mentre assolutizzava l’economia, l’ideologia neoliberista ha deliberatamente e sistematicamente annullato la dimensione spirituale dell’uomo, riducendolo alla dimensione materiale del vivere o, peggio, ad asservirsi al denaro. Benché la parola “spirito” sia polisemica e si presti a diverse interpretazioni, è alla dimensione spirituale (laicamente intesa) che si riferiscono valori come “libertà”, “solidarietà sociale”, “giustizia”, “bene comune”, “bellezza”, “felicità”, “conoscenza”, “saggezza”, “diritti”, “rispetto”, “consapevolezza”, “responsabilità”, “elevazione”, “cooperazione”, “creatività” eccetera.

Concentrandosi sulla ricchezza materiale come unico fine dell’esistenza, per i pochi che la possono ottenere, ci ha fatto dimenticare che esistono altre forme di ricchezza, infinitamente più appaganti e capaci di rendere la vita degna di essere vissuta: la ricchezza delle relazioni umane autentiche e profonde, della salute come completo benessere psico-fisico, della bellezza dei tesori artistici e naturali, della condivisione e della cooperazione, della nostra crescita umana e spirituale, dell’agire costruttivo nel lavoro, nella famiglia e nelle attività sociali, dell’armonia di una società meno lacerata da disuguaglianze, egoismi e sopraffazione, di un ambiente naturale pulito e rispettato.

Lungi dall’essere l’utopia di anime belle, i valori spirituali sono in primo luogo il salvagente che ci permette di non sprofondare nella melma della disperazione, della rassegnazione, della rabbia, della paura e della colpa; poi sono i criteri che orientano parole, pensieri e azioni verso un obiettivo preciso: riprenderci la nostra dignità di esseri completi e multidimensionali. Non c’è bisogno di uscire misticamente dal mondo per realizzarli. Essi sono dentro di noi e nella nostra storia e li troviamo concentrati nella Costituzione e in altri documenti ispirati come la Dichiarazione Universale dei diritti umani. Essi si fondano su una visione dell’uomo come essere sociale, empatico, cooperativo, creativo, amorevole, libero, consapevole e degno di rispetto. Certamente gli esseri umani possono essere egoisti, ostili, individualisti, ottusi, servili, violenti e inconsapevoli, ma non si tratta dell’unica opzione disponibile. Come gli schiavi nella caverna platonica, possiamo scegliere se rimanere incatenati o liberarci dalla degradazione che ci abbrutisce.

Ritengo perciò che la politica non debba sentirsi troppo a disagio a parlare di spiritualità, intesa come la connessione verticale con la parte migliore di noi stessi e con le dimensioni superiori dell’essere. Il primo lavoro da fare per disintossicare le menti, nostre e altrui, è cambiare il linguaggio. Il linguaggio programma il pensiero, come ci ha magistralmente insegnato George Orwell in 1984. Dobbiamo riconoscere e rifiutare la neolingua neoliberista che infarcisce i testi delle leggi, i documenti sulla scuola, gli articoli giornalistici, i programmi televisivi, i dibattiti politici, i discorsi comuni. Dovremmo criticarla, contestarla, protestare quando la incontriamo (alla radio, alla TV, nei discorsi quotidiani) e difendere lo spirito della nostra Costituzione con le unghie e con i denti, ogni giorno.

Dobbiamo poi riconoscere la menzogna che ci rende schiavi da decenni: che, come Italiani, siamo poveri, spendaccioni, corrotti, inaffidabili, incapaci, soli, colpevoli. Disponiamo di tesori immensi di bellezza e di genialità, abbiamo molte risorse creative e imprenditoriali, abbiamo una tradizione di solidarietà e di Stato sociale e non siamo affatto soli, se smettiamo di crederlo e uniamo le forze per rovesciare l’oppressione oligarchica che ci schiaccia.

Bisogna ripartire dalla scuola e dalla cultura, i due capitoli più intenzionalmente e vergognosamente trascurati negli investimenti pubblici dai governi pilotati dalle élites neoaristocratiche, mentre costituirebbero la principale risorsa umana ed economica di questo straordinario Paese. Ci sono voluti più di trent’anni per asfaltare la scuola pubblica e trasformarla nel guscio vuoto che è l’istruzione privatizzata, standardizzata, aziendalizzata e senza cultura di adesso, che è il risultato della stagione interminabile di tagli e stravolgimenti sostanziali mascherati da riforme. Ce ne vorranno altrettanti per riportarla ai valori della Costituzione, ma si potrà farlo solo se si percepisce chiaramente il degrado che essa ha subito sotto lo sguardo distratto dei cittadini. Come Movimento metapartitico, dovremmo fare ciò che l’attuale governo non ha capito, forse per mancanza di acume analitico o per mancanza di autentica sostanza politica, e cioè riportare i bisogni veri della scuola e delle generazioni future in testa al dibattito pubblico, perché solo da lì passerà un cambiamento autentico di prospettiva.

Il nostro immenso patrimonio culturale merita ben altra considerazione e lungimiranza. Non è ammissibile che siano senza lavoro o in condizione di assurda precarietà tanti giovani preparati, creativi e amanti della bellezza che ci circonda ovunque, mentre la nostra più grande ricchezza degrada e va in rovina per mancanza di cura. Non ci sarà futuro per noi senza un’istruzione di qualità e senza un adeguato investimento in cultura.

Non basterà l’economia a salvarci, se perderemo di vista la nostra identità storica e il senso stesso del vivere civile. Ci servono perciò idee lungimiranti e uomini che le incarnino con passione disinteressata e profonda connessione spirituale con ciò che ci rende migliori. Come scrisse con ragione Max Weber (La politica come professione),

Si può dire che tre qualità sono soprattutto decisive per l’uomo politico: passione, senso di responsabilità, lungimiranza.

Dobbiamo riuscire a guardare lontano, nella direzione indicata da Max Weber, da Ernst Bloch e da tanti grandi uomini che, senza retorica, ma con grande consapevolezza, ci hanno già tracciato la strada.

Il neoliberismo è compatibile con la democrazia?

A poche ore dalla tragedia del crollo del viadotto Morandi a Genova, la prima riflessione di molti cittadini italiani sta andando alla questione tutt’altro che secondaria della privatizzazione dei beni e dei servizi pubblici. I numerosi crolli di viadotti, strade, scuole, infrastrutture del Paese, da sempre giustificata con i vincoli di bilancio, con il debito pubblico, con le richieste di austerity da parte dell’Europa, ci sta mostrando due fatti evidenti: che se non si spende in infrastrutture e manutenzione si mette in pericolo la vita delle persone, il turismo e l’economia di intere zone; e poi che la semplice privatizzazione di infrastrutture lucrose come le autostrade non porta con sé i meravigliosi benefici promessi dalla propaganda neoliberista degli anni ’80 e ’90, con la sua retorica del “privato è bello”, della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, dei vantaggi per gli utenti.

La verità è che con le privatizzazioni si sono spesso creati monopoli, posizioni di rendita di tipo feudale e ingiustificati guadagni per poche famiglie ricche e strettamente legate con i vertici della politica nazionale e internazionale, a danno dei cittadini, che pagano pedaggi assurdamente costosi, a fronte di un servizio tutt’altro che ineccepibile. In Italia i principali gruppi privati concessionari delle autostrade sono il Gruppo Gavio (che è il quarto operatore al mondo nella gestione di autostrade a pedaggio con un network di circa 4.156 km di rete e che in Italia, attraverso la società SIAS, gestisce circa 1.423 km di rete, fra i quali l’autostrada Genova-Ventimiglia), e il gruppo Atlantia, di proprietà dei Benetton. Un articolo de Il Fatto quotidiano di qualche mese fa, a firma di Fabio Pavesi, metteva in evidenza gli enormi profitti del gruppo Atlantia (le autostrade italiane fino al 1999 furono di proprietà pubblica, del gruppo IRI, con il nome di Società Autostrade, diventata poi nel 2003 Autostrade per l’Italia S.p.A, 100% di proprietà del gruppo Atlantia, che gestisce autostrade a pedaggio anche in altri Paesi). Per essere precisi, 1,9 miliardi di utile operativo solo nel 2017 e solo per Autostrade per l’Italia S.p.A e un utile netto di 972 milioni in crescita del 19% sul 2016. Quale vantaggio ne viene ai cittadini italiani? Ovviamente nessuno. La autostrade a pedaggio sono una gallina dalle uova d’oro ad esclusivo appannaggio di potenti gruppi industriali, in assenza di qualsivoglia criterio di efficienza (come periodicamente si legge nelle riflessioni degli economisti più attenti, per esempio in questo articolo de Il Sole 24 ore). Molti ormai cominciano a rimpiangere i tempi dell’IRI, quando era lo Stato a gestire l’immenso patrimonio delle grandi infrastrutture del Paese. E molti si chiedono per quale ragione si dovrebbe continuare così.

Riflettendo in questi giorni sulle profetiche analisi del sociologo ungherese Karl Polanyi, scritte nel 1944 e pubblicate nel volume La grande trasformazione, mi chiedo se il neoliberismo, con i suoi miti di libertà d’impresa, competizione, privatizzazione, deregolamentazione, sia compatibile con la democrazia in generale e con la Costituzione italiana in particolare. La domanda non è originale e la risposta in certa misura è scontata, per chi frequenta la ricca letteratura al riguardo, ma non credo sia inutile ripercorrere le ragioni per le quali la risposta non può che essere negativa. Da queste ragioni deve derivare infatti un giudizio storico e politico nettissimo sulla classe dirigente che ci ha governato dagli anni ’80 in poi e la motivazione chiara a ribellarci ad uno stato di cose non più tollerabile.

Il neoliberismo ha fatto fortuna, anche nelle masse, equivocando sulla parola “libertà”. Chi non è sensibile alle infinite promesse di una parola tanto pregnante? Chi non vorrebbe essere libero? Il problema è però è duplice: quale libertà? E la libertà di chi? La visione liberale dello Stato si fonda sulla difesa delle libertà civili e politiche: libertà di coscienza, di riunione, di associazione, di espressione eccetera. Esistono, però, osserva Polanyi, anche le libertà negative: la libertà di sfruttare i propri simili, di sottrarre all’utilizzo comune scoperte tecnico-scientifiche per proteggere interessi privati, di trarre profitti da calamità collettive, di inquinare l’ambiente. Nell’economia capitalista, queste due forme di libertà sono i due lati della stessa medaglia.

Si potrebbe ipotizzare, continua Polanyi, una società futura nella quale le libertà “positive”, accompagnate da una regolamentazione adeguata, possano essere estese a tutti i cittadini. “Regolamentare” vuol dire porre limiti ai privilegi di una minoranza, proteggere i più deboli dal potere soverchiante di chi detiene la proprietà, correggere gli squilibri economici e sociali, controllare e sanzionare i comportamenti dannosi alla collettività, permettere a tutti i cittadini, anche a quelli svantaggiati, di esercitare le libertà “positive”. Questa società futura sarebbe libera e giusta insieme.

Ma ad impedire questo esito (la diffusione della libertà) è proprio l’”ostacolo morale” dell’utopismo liberale (quello che chiamiamo “neoliberismo”), di cui lui riconosceva il massimo esponente nell’economista Von Hayek. La visione neoliberista è utopica perché predica l’assenza del controllo e dell’intervento dello Stato in ambito economico e sociale, proprio mentre invoca l’esercizio della forza e anche della violenza dello Stato a difesa della proprietà. Detto in parole povere, per il neoliberismo lo Stato è al servizio della proprietà individuale e della libera impresa, cioè di quei pochi che non hanno bisogno di incrementare il proprio reddito, il proprio tempo libero e la propria sicurezza e agisce a svantaggio delle libertà di tutti gli altri. La libertà neoliberista è solo prerogativa dei ricchi (anche se a parole è disponibile a tutti) e non può essere estesa a tutti, perché questo minaccerebbe la proprietà. Chi è povero lo è per colpa sua ed è solo un perdente nella competizione per la ricchezza. La libertà è in sostanza la libertà di arricchirsi senza vincoli né regole.

Il neoliberismo (l’utopismo liberale), concludeva Polanyi, è intrinsecamente e incorreggibilmente antidemocratico e autoritario, perché piega lo Stato a difendere gli interessi di una minoranza a danno della maggioranza. Non per nulla il primo esperimento di Stato neoliberista fu il Cile di Augusto Pinochet, dove “libertà” significava azzeramento dei sindacati e dei diritti delle comunità, privatizzazioni selvagge, liberalizzazioni finanziarie e repressione delle libertà civili. Qui il neoliberismo si sposa con il fascismo. 

Ma c’è anche un modo meno cruento per effettuare un colpo di Stato: corrodere un giorno dopo l’altro, per decenni, i diritti e i redditi dei cittadini, asservirli al potere finanziario, vincolarli a norme-capestro che li rendano schiavi di interessi estranei, modificare la Costituzione a danno della sovranità popolare, indebolire i lavoratori e i sindacati, assecondare gli interessi dei più forti, non intervenire a ridurre le disuguaglianze, privatizzare i beni pubblici, ridurre la spesa sociale, distrarre continuamente l’attenzione pubblica con falsi problemi e individuare sempre nuovi bersagli per la rabbia popolare, colpevolizzare i cittadini per la loro condizione e controllare i mass-media, in modo che veicolino continuamente la visione che più fa comodo ai manovratori (quella che Marcello Foa ha chiamato “il frame”, la cornice), martellare per anni e decenni i cittadini con un linguaggio economicista pieno di concetti come imprenditorialità, libertà d’impresa, debiti e crediti, competizione eccetera – insomma costruendo un’ideologia che giustifichi e renda accettabile la progressiva riduzione in schiavitù di interi popoli, tenendone a bada l’inevitabile scontento con il senso di colpa, la paura e la menzogna. Questo è ciò che è successo da noi in questi ultimi decenni. Questo è l’imperdonabile tradimento della Costituzione e dei suoi valori realizzato da una classe politica avida e asservita a gruppi di potere nazionali e sovranazionali che l’hanno telecomandata a danno nostro. Il neoliberismo non è solo di una teoria economica, ma di un modello complessivo di società, sorretto da un poderoso e contraddittorio apparato ideologico, incompatibile con la democrazia, come sono incompatibili con la democrazia i monopoli privati di beni collettivi.

Il viadotto di Genova è un simbolo di ciò che deve finire in Italia e nel mondo se vogliamo avere un futuro democratico. La globalizzazione neoliberista, che esalta il libero mercato, mentre mira a costituire monopoli e posizioni di forza, sta mettendo in ginocchio interi popoli. Povertà e disuguaglianza aumentano di giorno in giorno a livello globale. Non è più accettabile mantenere in piedi privilegi feudali, massacrando sogni e speranze di miliardi di persone. Il filosofo John Rawls sosteneva che una disuguaglianza è accettabile solo se migliora anche le condizioni di chi ha di meno. La ricchezza non è un male, ma lo è l’ingiusta distribuzione di essa. La libertà senza giustizia sociale è solo un guscio vuoto e uno specchio per le allodole. Questo dice in sostanza la nostra Costituzione.

Se la vogliamo difendere, dobbiamo consegnare al passato il neoliberismo, memori della sofferenza e dei disastri che ha provocato. Non vedo altra via d’uscita dal tunnel nel quale ci troviamo. Deve essere lo Stato a regolare l’economia e il fine dell’economia deve essere il benessere dei cittadini. Il mercato non è in grado di autoregolarsi affatto e laddove i governi sono collusi con i potentati economici stanno tradendo la sovranità popolare. Non dimentichiamoci la frase pronunciata dal miliardario Warren Buffett (il terzo uomo più ricco al mondo) a proposito della diminuzione delle tasse per i ricchi: “La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi”. Tanto per ricordarci di che cosa c’è in gioco: non la lotta contro la ricchezza, ma la lotta contro una visione predatoria della ricchezza e contro la menzogna che ci rende schiavi da troppo tempo di un’élite che ha consapevolmente e pazientemente costruito il mondo squilibrato nel quale ci troviamo a vivere.

[continua]

Ce lo chiede l’Europa? Le politiche scolastiche e la Costituzione neoliberista

Dopo aver analizzato la fondamentale ispirazione neoliberista della legge sulla Buona Scuola (La perversione neoliberista e la legge della “Buona Scuola”), occorre ora comprendere da dove arrivi questa impostazione ideologica.

Sarebbe un errore pensare che la curvatura in senso neoliberista impressa alla scuola italiana negli ultimi 20 anni sia una scelta autonoma dei politici nazionali. È certamente una loro responsabilità ed un effetto della loro ignavia, ma l’origine della scuola neoliberista è da ricercarsi nel modello di Europa che è stato realizzato a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso. Nei trattati europei – il Trattato sull’Unione europea (TUE), del 1986, confluito nel Trattato sul Funzionamento dell’UE (TFUE), del 2007 – non si parla di una politica europea dell’istruzione. L’Articolo 165 del TFUE (ex articolo 149 del TCE) afferma al comma 1:

L’Unione contribuisce allo sviluppo di un’istruzione di qualità incentivando la cooperazione tra Stati membri e, se necessario, sostenendo ed integrando la loro azione nel pieno rispetto della responsabilità degli Stati membri per quanto riguarda il contenuto dell’insegnamento e l’organizzazione del sistema di istruzione, nonché delle loro diversità culturali e linguistiche.

Non si parla, cioè di un indirizzo comune fra gli Stati europei, ma di una generica collaborazione fra Stati con completa autonomia in materia di istruzione. L’idea di imprimere una direzione comune alle politiche scolastiche matura al di fuori delle istituzioni europee, in alcuni circoli privati di industriali.

Se si vuole situare la nascita di una politica comune in Europa non è alla Commissione europea, al Consiglio dei ministri e ancora meno al Parlamento europeo che dobbiamo guardare quanto, piuttosto, alla potente lobby padronale della Tavola Rotonda Europea degli industriali (ERT). Creato nel 1983, questo gruppo di pressione riunisce una quarantina tra i più potenti dirigenti industriali europei, come Peter Brabeck (Nestlé), Paolo Fresco (Fiat), Leif Johansson (Volvo), Thomas Middelhoff (Bertelsmann), Peter Sutherland (BP) o Jürgen Weber (Lufthansa). Il loro lavoro comune consiste nell’analizzare le politiche europee nell’ambito dei diversi settori e nel formulare raccomandazione corrispondenti ai propri obiettivi strategici. Alla fine del 1989 un «gruppo di lavoro educazione» dell’ERT pubblica un rapporto intitolato «Educazione e competenza in Europa». Questo sarà il primo di una lunga serie di documenti ad affermare «l’importanza strategica vitale della formazione e dell’educazione per la competitività europea» e a perorare «un rinnovamento accelerato dei sistemi d’insegnamento e dei loro programmi».

In particolare vi si legge che «l’industria non ha che un’influenza molto debole sui programmi impartiti», e che gli insegnanti hanno «una comprensione insufficiente dell’ambiente economico, degli affari e della nozione di profitto», che «non comprendono i bisogni dell’industria» [ERT 1989]. Comunque, insiste la Tavola Rotonda, «competenza ed educazione sono fattori di riuscita vitali». In conclusione, la lobby padronale suggerisce di «moltiplicare i partenariati tra le scuole (e) le imprese». Invita gli industriali a «prender parte attiva allo sforzo educativo» e chiede ai responsabili politici «di coinvolgere le industrie nelle discussioni concernenti l’educazione» [ERT 1995].

La Tavola Rotonda rimprovera anche che «nella maggior parte d’Europa, le scuole (siano) integrate in un sistema pubblico centralizzato, gestito da una burocrazia che rallenta la loro evoluzione o le rende impermeabili alle domande di cambiamento provenienti dall’esterno» [ERT 1995]. I datori [di lavoro] reclamano dei lavoratori «autonomi, in grado di adattarsi ad un continuo cambiamento e di accettare senza posa nuove sfide» [ERT 1995].

[Nico Hirtt, L’Europa, la scuola e il profitto. Nascita di una politica educativa comune in Europa, http://www.edscuola.it/archivio/ped/europa_scuola_profitto.htm, traduzione di Paola Capozzi]

Troviamo qui la retorica che accompagnerà tutti i documenti europei successivi: la scuola è finalizzata all’economia e al lavoro, è al servizio dell’industria, coinvolge gli imprenditori nello sforzo educativo, è orientata alla competizione e al profitto, deve rinnovarsi velocemente, deve formare lavoratori autonomi e flessibili, sempre pronti ad adattarsi ai cambiamenti (senza gravare per la formazione sulle imprese) e impegnati nell’educazione permanente.

Un decennio dopo la creazione dell’ERT, nel 1992, il Trattato di Maastricht affida alla Commissione europea (organo non elettivo, ricordiamolo) il compito di delineare una politica europea dell’istruzione:

l’articolo 126 del Trattato di Maastricht accorda per la prima volta alla Commissione europea competenze in materia di insegnamento. A tal fine viene creata la DGXXII, la Direzione generale dell’Educazione, della Formazione e della Gioventù, diretta dalla socialista francese Edith Cresson. Si tratta di una sorta di «ministero» europeo dell’Educazione. Mme Cresson mette rapidamente in azione un «gruppo di riflessione sull’Educazione e la formazione» sotto l’egida del prof. Jean-Louis Reiffers. Dopo aver direttamente partecipato all’elaborazione del Libro Bianco «Insegnare e imparare: verso la società cognitiva», tale gruppo, nel 1996, esprime le proprie raccomandazioni. Si legge che «è adattandosi alle caratteristiche dell’impresa dell’anno 2000 che i sistemi d’educazione e di formazione potrebbero contribuire alla competitività europea e al mantenimento dell’occupazione.» [REIFFERS 1996]. (Ibid.)

La Commissione europea, insomma, mette nero su bianco le indicazioni degli industriali. Emergono continuamente come finalità dell’istruzione l’adattamento alle esigenze delle imprese, l’occupazione e la competitività. Nel 2000, a Lisbona, si esalta l’e-learning come nuova frontiera dell’insegnamento e si tracciano gli obiettivi economici della futura “società della conoscenza”:

L’idea madre, l’ideologia fondatrice di questa politica educativa comune, è riassunta come segue nella maggior parte di questi documenti: «l’Unione europea si trova di fronte ad una svolta formidabile indotta dalla mondializzazione e dalle sfide relative a una nuova economia fondata sulla conoscenza». Da quel momento l’insegnamento europeo deve piegarsi ad un «obiettivo strategico» principale: aiutare l’Europa a «diventare l’economia della conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, capace di una crescita economica duratura» [CCE 2001]. (Ibid.)

I cardini delle politiche europee (della Commissione, beninteso) per la scuola sono quindi perfettamente collocabili nel quadro dell’ideologia neoliberista: poiché tutta la realtà umana va guardata esclusivamente da una prospettiva economica, la competizione economica è il fine dell’istruzione. Appare quasi superfluo osservare che questo modo di intendere l’istruzione è lontanissimo dalla visione della scuola come organo costituzionale, che forma uomini e cittadini alla vita democratica e trasmette la cultura da una generazione all’altra, quale è delineata dalla Costituzione italiana del ‘48.

Il virus neoliberista penetra in ogni meandro del linguaggio dei documenti europei, contaminando alla radice tutto ciò che nella Costituzione parla di cultura, solidarietà, cooperazione, inclusione, partecipazione democratica, diritti, uguaglianza sostanziale.

Si parla di competenze professionali (nelle nuove tecnologie informatiche, nelle lingue, nello spirito d’impresa, nella pluridisciplinarietà) e sociali («fiducia in se stessi, indipendenza, attitudine ad assumersi rischi» CCE 2000-b), di formazione permanente (sviluppando le competenze di base e la capacità di imparare e facendo così risparmiare le imprese sulla formazione), di alfabetizzazione informatica ed e-learning, di deregolamentazione e decentramento dei sistemi di istruzione nazionali, per renderli “flessibili” e metterli in concorrenza fra loro, di partnerariato con le imprese («Gli istituti scolastici, i centri di formazione e le università dovrebbero essere aperti sul mondo: è opportuno assicurare i loro legami con l’ambiente locale, con le imprese e con i datori di lavoro in particolare, per migliorare la comprensione dei bisogni di questi ultimi e accrescere in questo modo l’occupabilità dei discenti» [CCE 2001]), di diversificazione dell’offerta, per venire incontro a bisogni diversi e «creare sistemi elastici di validità dei titoli» [Présidence du Conseil européen, 2000] (ovvero, indebolire il valore legale del titolo di studio, per aumentare la flessibilità e ridurre le tutele), di mobilità degli studenti, ottimo alibi per l’armonizzazione dei percorsi di studi e per un controllo europeo dell’insegnamento, di cittadinanza e impegno sociale (obiettivo che però poi tende ad indebolirsi nei documenti successivi) e di lotta all’esclusione, da attuare in tre modi: la sponsorizzazione delle scuole da parte di imprese, le convenzioni d’inserimento scuola-impresa (ecco lì l’alternanza scuola-lavoro), l’attuazione di tecnologie educative di punta [CCE 1995].

In un contesto di feroce competizione economica e di continua innovazione tecnologica, se la scuola è finalizzata all’impresa si producono due conseguenze: la prima è che diventano necessarie figure di professionisti ad alta specializzazione tecnologica, la seconda è che la precarizzazione del lavoro aumenta la richiesta di personale a bassa qualifica e con contratti a termine. Il mondo economico neoliberista richiede una scuola duale, nella quale gli estremi si allontanano sempre di più. Il dualismo formativo si accompagna alla terza conseguenza della competizione economica: la riduzione della spesa sociale come conseguenza della riduzione della pressione fiscale richiesta dalle imprese, per sostenerle nella competizione globale (“defiscalizzazione competitiva”). La scuola neoliberista è competitiva e ridotta all’essenziale e convive con una pluralità di enti privati che erogano formazione. Così anche l’insegnamento diventa un mercato e la deregulation coinvolge l’istruzione:

Per la Tavola Rotonda degli Industriali, « la resistenza naturale dell’insegnamento pubblico tradizionale dovrà essere superata attraverso l’utilizzo di metodi che combinano l’incoraggiamento, l’affermazione di obiettivi, l’orientamento verso l’utente e la concorrenza, soprattutto quella del settore privato » [ERT 1989]. (Ibid.)

Di qui l’insistenza sulle competenze, anziché sulle conoscenze e sulla cultura:

Lo scivolamento dei saperi verso le competenze è spiegato quindi non da un sussulto d’innovazione pedagogica, come si potrebbe ritenere, ma essenzialmente da una volontà di adeguamento della mano d’opera ad un ambiente di produzione caotico e dualizzato. Per quel 20-25% di manodopera che occuperà i posti a un livello molto alto di qualificazione, i saperi scolastici sono per lo più obsoleti. Per il 40- 50% dei posti a livello di qualificazione molto basso, sono superflui. Dal che la volontà di concentrare la formazione su quelle competenze di base comuni a tutti: lettura, scrittura, calcolo, alfabetizzazione informatica, adattabilità, capacità di risolvere problemi, competenze sociali, etc… (Ibid.; corsivo mio)

Ecco spiegato perché il governo Berlusconi, con la Ministra dell’Istruzione Letizia Moratti, si pose dal 2001 come obiettivi il ridimensionamento del ruolo dello Stato nell’ambito dell’istruzione e la concorrenza fra scuola pubblica e privata; la riduzione della spesa per l’istruzione, diminuendo le risorse, il numero dei docenti, delle ore di scuola, in particolare il tempo prolungato e il tempo pieno; il mantenimento del sistema scolastico tradizionale, rigidamente costituito in ordinamenti separati (legge delega n.53 del 2003, solo parzialmente applicata per l’opposizione serrata dei docenti), con la scelta precoce della scuola superiore a 13 anni; la riduzione delle ore di lezione a 27 settimanali; il ritorno al maestro unico di ottocentesca memoria (tutor); l’anticipo della frequenza nella scuola d’infanzia; la progressiva sparizione del tempo pieno; nuovi programmi che, allegati alla legge, diventavano obbligatori, in palese contrasto con la norma, ancora vigente, sull’autonomia scolastica; la creazione di un sistema secondario duale, con la rigida separazione fra i licei, sotto il controllo dello Stato, e gli istituti tecnici e professionali, affidati alle Regioni (D. Lgs. n. 226 / 2005).

Ed ecco l’origine del patetico slogan di quegli anni, le tristemente famose “tre ‘i’” della Moratti: Inglese, Informatica e Impresa. In queste tre parole si sintetizza un intero programma politico europeo, imprigionato dalla retorica neoliberista, e la fine della scuola come organo costituzionale, produttrice di cultura, di cittadinanza democratica e di uguaglianza sostanziale di cui parlava il padre costituente Piero Calamandrei.

È lo stesso paradigma che porta qualche anno dopo il Ministro dell’Economia Tremonti e la Ministra dell’Istruzione Maria Stella Gelmini (altro governo Berlusconi) ad una pseudo-riforma (legge 133/2008) che ha come unico criterio il massiccio de-finanziamento della scuola pubblica, già intrapreso da Letizia Moratti. Più che di una riforma, si tratta di una scientifica e draconiana amputazione della scuola pubblica a fini di bilancio e – meno dichiarato – di indebolimento del sistema pubblico di istruzione, che da allora agonizza in mezzo a ristrettezze infinite.

In pochi minuti di Consiglio dei ministri, nel luglio 2008 Tremonti ottiene senza battere ciglio 8 miliardi di euro di tagli alla scuola sui 40 del bilancio complessivo. Nessun comparto pubblico verrà devastato con altrettanta determinazione:

  • 87.000 insegnanti in meno (licenziati in tronco, perché precari), 44.000 ATA (amministrativi e bidelli) in meno, aumento del numero degli alunni per classe, con classi di 30-40 alunni, riduzione del numero di ore delle materie, taglio del tempo pieno e dei moduli alla scuola primaria (con conseguenze gravi soprattutto al Sud nelle terre di mafia), taglio dei laboratori ai tecnici e ai professionali, saturazione delle cattedre a orario pieno (con conseguente discontinuità didattica), aumento del precariato, blocco delle assunzioni per concorso e delle carriere dei docenti, revisione al ribasso dei programmi, con la neutralizzazione di ogni prospettiva critica e con l’indebolimento massiccio dello studio della storia;
  • ritorno alla scuola ottocentesca con il maestro unico nella scuola primaria, il ritorno dei voti numerici, abrogati nel 1977, e riordino della scuola superiore basato sulla Riforma Moratti, con la sua rigida separazione ordinamentale, ignorando i frutti positivi delle sperimentazioni degli anni ‘90;
  • riduzione drastica dei fondi alle scuole, che minaccia il principio di gratuità dell’istruzione (per sopravvivere, le scuole chiedono contributi sostanziosi alle famiglie).

Nonostante una fortissima protesta nel Paese, che raccoglie centinaia di movimenti spontanei di docenti, studenti e genitori, organizzazioni sindacali, prese di posizione politiche, la “riforma” viene condotta a termine senza alcun cedimento, con un atteggiamento autoritario e sprezzante che non ha eguali nella storia repubblicana. Gli effetti non tardano a farsi sentire:

  • l’autonomia scolastica viene fiaccata dalla mancanza di fondi;
  • vengono cancellate tutte le compresenze, utili per i progetti di recupero e integrazione scolastica;
  • il tempo pieno e la specializzazione dei docenti nei moduli, fiore all’occhiello della scuola primaria, vengono ridimensionati o cancellati (il tempo pieno praticamente sparisce al Sud), lasciando il posto al maestro solo e tuttologo (più che unico), allo spezzatino didattico (suddivisione di parti di orario fra diversi docenti per coprire i buchi di orario nelle classi), alle classi-pollaio, all’impossibilità di garantire il servizio di pre-scuola e a volte la stessa vigilanza degli alunni per carenza di bidelli;
  • l’insegnamento dell’inglese nella scuola primaria cessa di essere affidato ai 9000 docenti specialisti con formazione specifica in Lingue, per essere assegnato alle docenti di classe dopo 30 ore di formazione;
  • gli istituti tecnici e professionali perdono gran parte delle ore di laboratorio;
  • i licei si vedono ridurre le ore di scuola; alcune materie, come la storia e la filosofia, vengono ridotte nel monte-ore, con modifiche alla distribuzione della materia nei cicli di scuola e nelle classi della secondaria superiore che rendono impossibile trattare il Novecento, che resta quindi solo sulla carta delle Indicazioni Nazionali;
  • le sperimentazioni più moderne, capaci di favorire un pensiero critico e complesso, come il Liceo delle Scienze sociali, vengono sostituite da percorsi di studio molto meno consistenti dal punto di vista culturale e svuotati di ogni potenziale critico, come avviene con il Liceo delle Scienze umane, che ripropone, con nome diverso ma eguale ideologia di fondo, il vecchio Istituto Magistrale di gentiliana memoria, una sorta di liceo femminile di serie B.

Nella cronica mancanza di fondi, le scuole vanno avanti di emergenza in emergenza, attingendo ai contributi semivolontari delle famiglie e al volontariato dei docenti, che continuano a fare le stesse cose di prima o gratis o con un compenso da caporalato di Stato.

Questo il quadro desolante nel quale si inserisce la Buona Scuola di Renzi a completare l’opera. La perversione ideologica che sostiene questa visione stravolta ed eversiva della scuola democratica consiste nello spacciare per positivo e vantaggioso proprio ciò che toglie alle future generazioni ogni speranza di riscatto umano e sociale.

L’ossessivo mantra della formazione per il lavoro, della competizione, della centralità delle nuove tecnologie (TIC), del cambiamento a tutti i costi, della partecipazione delle imprese nei programmi e nella didattica, per esempio attraverso l’alternanza scuola-lavoro e il finanziamento privato della scuola pubblica, del rinnovamento dei metodi di insegnamento a favore dello sviluppo delle competenze, dell’educazione permanente, rappresentano il belletto con il quale si maschera una realtà sociale data per scontata e immodificabile, fondata sul profitto ad ogni costo, sulla subalternità di ogni valore al denaro, sullo sfruttamento del lavoro, sul controllo delle coscienze, sull’addestramento di una manodopera docile e complice del proprio asservimento, sul furto di cultura e di identità, sull’impoverimento del sapere.

Negli anni, il mantra si ripete sempre uguale. Questo dice, per esempio, il Progetto dell’UE per la modernizzazione dell’istruzione superiore (COM/2011/567) del 2011:

L’insegnamento superiore incrementa il potenziale individuale e deve dotare i diplomati delle conoscenze e delle competenze trasferibili essenziali che consentiranno loro di riuscire ad ottenere posti altamente qualificati. Tuttavia, i programmi d’insegnamento reagiscono spesso con lentezza all’evoluzione delle esigenze dell’economia in generale e non riescono ad anticipare le carriere del futuro, né a contribuire a modellarle; i diplomati fanno fatica a trovare un impegno di qualità che sia conforme ai loro studi. Associare i datori di lavoro e le istituzioni del mercato del lavoro alla definizione e alla realizzazione dei programmi, sostenere gli scambi di personale e introdurre l’esperienza pratica nei corsi può aiutare ad adattare i programmi di studio alle necessità attuali e future del mercato del lavoro, favorendo l’occupabilità e lo spirito imprenditoriale. Un migliore controllo da parte degli istituti d’istruzione dei percorsi di carriera dei loro ex studenti può fornire importanti informazioni sull’elaborazione dei programmi e migliorare la loro pertinenza. (corsivo mio)
https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX:52011DC0567

Alla persona comune, può sembrare lodevole che la scuola fornisca competenze spendibili nel mercato del lavoro e diffonda l’uso delle tecnologie digitali, ma questa convinzione si fonda su un colossale inganno: un sapere funzionale all’economia perde infatti ogni funzione emancipante e priva gli studenti della creatività, del pensiero critico, del senso della propria libertà interiore e civile che rende possibile la consapevolezza, la ribellione e la costruzione di un mondo migliore. Alla lunga, mina il senso stesso dell’identità culturale di un popolo e produce lavoratori standardizzati, flessibili, senz’anima e disposti a consegnare le loro precarie esistenze ad una globalizzazione che segue unicamente la legge del mercato. Il nemico della scuola neoliberista non è l’ignoranza, ma la democrazia.

Il confronto fra il dettato costituzionale, che ci descrive il dover essere della scuola democratica, e l’implicita costituzione neoliberista, che invece è a fondamento della scuola reale, frutto del colpo di mano della burocrazia europea e degli industriali, sarà oggetto di ulteriore riflessione.

[continua]

La perversione neoliberista e la legge della “Buona Scuola”

“L’economia è il mezzo, l’obiettivo è quello di cambiare il cuore e l’anima”

(Margaret Thatcher, intervista a “The Sunday Times”, 1° maggio 1981)

Non credo faccia male riparlare ogni tanto di neoliberismo. Per quanto lo si evochi spesso nelle nostre discussioni politiche, è difficile coglierne subito tutte le profonde e sottili implicazioni. A livello di teorie economiche, sappiamo tutti all’incirca quali ne siano la storia e i princìpi fondamentali: nato in circoli accademici ristretti, lautamente foraggiati per contrastare il mainstream economico keynesiano, la teoria economica neoliberista finisce con il diventare in pochi anni, fra gli anni ‘70 e ‘80, la visione dominante dell’economia, grazie agli economisti della Scuola di Chicago Friederich von Heyek e Milton Friedman, allievo di von Heyek, e ai loro allievi e collaboratori. Le sue applicazioni più note sono quelle di Augusto Pinochet in Cile, di Margaret Thatcher in Gran Bretagna e di Ronald Reagan negli USA.

Fondato su una visione assiomatica (ovvero indimostrabile) e ideale del mondo economico come di una realtà perfettamente ordinata e regolata da leggi “naturali”, al di fuori di ogni intervento regolatore dello Stato, il neoliberismo, estremizzando la teoria della “mano invisibile” di Adam Smith, postula la spontanea diffusione della ricchezza e del benessere come conseguenza “naturale” dell’assenza di ogni vincolo economico, giuridico, ambientale, politico, sociale all’egoistico perseguimento del profitto. Si tratta di un dogma che non ammette smentite, poiché l’idea della capacità dei mercati di autoregolarsi viene assunta come principale e indiscutibile legge dell’economia e qualunque fatto che la contraddica, quale la disoccupazione, l’aumento dell’inflazione, l’arresto della crescita, viene attribuito dalla teoria esclusivamente all’insufficiente libertà del mercato.

Per autoconvalida, quindi, la ricetta è sempre “meno Stato, più mercato” (salvo quando, in modo contraddittorio, si chiede che lo Stato intervenga ad attuare politiche pro-cicliche di austerity o a proteggere il mercato interno dalla concorrenza estera, per esempio). In questo senso, la teoria accademica diventa, nelle mani dei politici e dei potentati economici internazionali, una ideologia totale, intendendo con questo termine una produzione intellettuale sostanzialmente falsa e inautentica, che mira a dare ordine alla società e ad orientarne l’evoluzione storica, che è incorreggibile e che pretende di essere universale e globale, ovvero di dire tutto l’essenziale sull’uomo, sotto qualunque cielo e in qualunque circostanza.

Le ricette neoliberiste in economia sono principalmente tre: deregulation (ovvero assenza di regole che limitino l’acquisizione di profitti e la circolazione dei capitali), privatizzazioni (sulla base dell’assioma che il privato è più efficiente del pubblico) e riduzione della spesa sociale, per evitare l’”inquinamento” dello Stato nel mondo perfetto dei mercati.

A questa visione discutibile e astratta dell’economia, strumentale allo spostamento di ricchezza dai poveri ai ricchi e responsabile dell’aggravarsi della diseguaglianza, della miseria e della disperazione, laddove essa è stata applicata in modo inflessibile (come spiega molto bene il premio Nobel Joseph Stiglitz nel saggio La globalizzazione e i suoi oppositori), si accompagna, nella realtà storica del processo di globalizzazione, anche e soprattutto una visione distorta dell’uomo e della vita, una vera e propria perversione antropologica, che si insinua nelle coscienze, nelle famiglie, nelle comunità e che distrugge in profondità la spontanea propensione umana alla cooperazione, all’altruismo e all’empatia.

In questa visione, esiste solo il singolo, che persegue avidamente e in modo aggressivo il suo utile egoistico; la vita è una lotta per la sopravvivenza nella quale emerge chi vince nell’incessante competizione per l’accaparramento di beni finiti; l’altro essere umano è una minaccia costante al proprio benessere; il valore di ogni relazione ed esperienza umana si misura con il denaro ed è quantificabile in termini economici; non esistono limiti etici al diritto di trarre profitto dalle proprie attività, visto che per sgocciolamento (trickle down) la ricchezza accumulata dai vincenti porterà comunque benessere a tutti; lo Stato che spende per i servizi sociali è vizioso e il debito pubblico è una sorta di peccato originale che richiede un’espiazione collettiva; i mercati sono l’unico Dio a cui essere sottomessi, senza remissione; la propria felicità si persegue a danno della felicità altrui: mors tua, vita mea, in un eterno gioco a somma zero, in cui la miseria e la sofferenza prodotte sono un male necessario per consentire la crescita indefinita, unico fine dell’attività economica.

Questa deriva ideologica del neoliberismo è ben riassunta dal famoso aforisma di Margaret Thatcher: “Non esiste una cosa chiamata società, ci sono solo individui e famiglie”. Le idee di vita associata, di solidarietà sociale e di beni comuni e inalienabili sono estranee a questa visione del mondo. Tutto è quantificabile, alienabile e privatizzabile; tutto è subordinato al perseguimento dell’interesse privato e lo Stato non ha alcun ruolo nel mediare fra interessi contrapposti, anche quando i costi umani sono altissimi.

Si dice, con una certa ragionevolezza, che il neoliberismo come dottrina accademica non implichi tutte queste sovrastrutture ideologiche e che Von Heyek, Friedman e colleghi non erano così dogmatici. In effetti, qui non stiamo parlando delle teorie economiche in quanto tali, ma del modello di essere umano che esse sottendono, più o meno implicitamente, e che guida la conseguente azione politica. Stiamo parlando cioè di un fenomeno di egemonia culturale, nel senso descritto da Antonio Gramsci, ovvero di un pensiero che diventa dominante in un momento storico e consente ai gruppi al potere di esercitare una forma di controllo sulle persone, grazie al fatto che esso viene assunto nelle pratiche sociali, diffuso costantemente e interiorizzato. Questo pensiero egemonico sostituisce una visione del mondo ad un’altra e colonizza le menti, rendendo difficile uscire dal frame, dallo schema interpretativo imposto.

Per averne un saggio, basti leggere una riflessione di Gary Becker, l’allievo di Friedman che coniò l’espressione capitale umano (anch’essa pregna di questa ideologia):

Per la maggior parte dei genitori, i figli sono una fonte di reddito psicologico, o di soddisfazione. Pertanto, nella terminologia economica, essi si possono considerare un bene di consumo. I figli possono anche fornire reddito, ed in qualche caso sono anche un bene produttivo. Inoltre, né le spese né il reddito prodotto dai figli sono fissi, ma variano a seconda della loro età. Questa caratteristica fa dei figli un bene durevole, sia produttivo che di consumo. Può sembrare eccessivo, artificiale, forse anche immorale classificare i figli alla stregua di automobili, case o macchinari. Questa classificazione però non implica che le soddisfazioni o i costi associati ai figli siano gli stessi, da un punto di vista morale, di quelli che corrispondono ad altri beni durevoli).

[da G.S. Becker, L’approccio economico al comportamento umano, Bologna, il Mulino, 1998 (ed orig. 1960), p. 37]

I figli visti come beni di consumo o, peggio ancora, come bene produttivo, rappresentano adeguatamente il livello di stravolgimento assiologico di questo discorso: invece di essere funzionale alla vita, l’economia la fagocita e ne inscatola con cinica indifferenza l’infinita ricchezza in una serie di anonimi contenitori tutti uguali e misurabili, che si chiamano “beni di consumo” o “beni produttivi”. In questo delirio di onnipotenza, i legami familiari, i sentimenti, le aspirazioni, i destini di individui e popoli diventano la variabile dipendente delle leggi naturali del mercato, concepite come fisse e immodificabili, come un Fato di fronte al quale si può solo chinare la testa, con pia rassegnazione.

Non ci rendiamo sempre conto di quanto abbiamo finito per considerare normale questa maligna distorsione della realtà sub specie oeconomica, che rende pensabile l’impensabile, attraverso l’apparente neutralità del linguaggio scientifico. Finiamo con l’abituarci al fatto che in molte aree del mondo esistano bambini-schiavi, bambini-soldato, bambini-oggetto sessuale (che sono senz’altro “beni produttivi”) o al fatto che le famiglie possano essere disgregate senza riserve, perché prima vengono le esigenze produttive, quando i genitori devono accettare un posto di lavoro sempre più precario in luoghi diversi e lontani fra loro, quando devono lavorare oltre l’orario per non perdere il posto, quando l’azienda delocalizza l’attività; oppure ci diventa familiare il fatto che i bambini, sempre più soli, vengano tenuti buoni lasciandoli incollati molte ore al giorno ai loro costosi schermi digitali, che li rendono dipendenti e rubano loro esperienze ben più vitali; o ancora, riusciamo a trovare accettabili le ricette neoliberiste per la scuola, espresse in una neolingua economica dalla quale vengono espulsi la vita, la bellezza, la conoscenza, la relazione profonda e la crescita umana.

Su quest’ultimo aspetto mi voglio soffermare qui. Ci sembra ormai normale parlare di dirigenti scolastici (come in azienda), anziché di presidi; di debiti e crediti formativi, di offerta formativa, di successo formativo, di piani e pianificazione, di innovazione e imprenditorialità, di competenze intese non nel senso etimologico di un sapere a cui si aspira condividendo esperienza (cum + petere), ma come il bagaglio di strumenti per competere alla pari sul mercato (to compete), da certificare (altra parola della neolingua) e da misurare con test oggettivi e standardizzati (si ricordi il Portfolio delle competenze della Ministra Moratti, fulgido esempio di lessico aziendalista).

La Buona Scuola di Renzi è un concentrato di ideologia neoliberista, in cui tutto è finalizzato a trasformare la scuola in un’azienda, i docenti in passivi impiegati privi di autonomia professionale e costantemente sotto ricatto economico e psicologico, gli studenti in docili schiavi da addestrare per le esigenze del mondo del lavoro, ma privi di creatività e di senso critico, in cui il tempo-scuola – sempre più ridotto dal 2008 in poi, fino alla trovata dei licei quadriennali – è un tempo infarcito di attività accattivanti, ma prive di sostanza culturale, come il CLIL (ovvero l’insegnamento di una materia in lingua straniera con didattica smart) o la didattica multimediale; dove il mondo del lavoro entra di prepotenza nella didattica, diventandone lo scopo, e arriva, con il nuovo esame di Stato, a valutare l’alunno al posto del docente per una parte cospicua del voto finale; dove infine gli enti certificatori esterni, come l’INVALSI, che entrerà anch’esso nella valutazione finale dello studente, sottraggono una bella fetta di autonomia didattica al docente, costringendolo all’aberrazione del teaching to test, cioè a sacrificare ulteriormente la filosofia, la matematica, la storia o la letteratura alla preparazione al test standardizzato.

Nell’orizzonte ideologico neoliberista, non esistono né l’uomo né il cittadino, ma solo il lavoratore e il consumatore, e la standardizzazione livella ogni differenza di personalità e di profili attitudinali individuali. Da quest’anno, entra nella valutazione finale in uscita dalla scuola primaria (a 10 anni!) una qualità comportamentale che si chiama “Spirito di iniziativa ed imprenditorialità” (Decreto Legislativo 62/2017, art. 2. Valutazione nel primo ciclo). Tanto per chiarire subito qual è il fine.

Un bambino che cresce intossicato da questa visione del mondo è pronto ad accettare qualunque lesione ai propri diritti, a considerare normale l’egoismo e naturale competere con gli altri, a dare per scontata la “durezza del vivere” che è il prezzo della crescita, a considerare il lavoro, anziché la propria emancipazione personale e civile come scopo dello studio, a non fare mai domande, poiché tutto è già pianificato, predisposto e certificato, ogni conoscenza è misurabile e quantificabile e ciò che esula dalla misura standardizzata (il pensiero critico, il gusto estetico, la creatività) non ha più posto nella sua formazione e nel suo portfolio delle competenze.

In questo modello di scuola, l’autonomia didattica del docente scompare, compressa dalla pressione ministeriale a conformarsi ai metodi via via imposti dall’alto come innovativi (come se fosse il metodo a garantire il contenuto), dalle attività scolastiche obbligatorie, come l’alternanza scuola-lavoro, che sottraggono tempo alla didattica, dall’influenza dei datori di lavoro che valutano gli studenti, dai vincoli dell’INVALSI, dalla valutazione meritocratica (ovvero dalle conseguenze economiche) dei suoi risultati quantificabili con il “successo formativo” degli allievi, dall’ingerenza dei privati nel finanziamento e nella gestione degli istituti, dalla ragnatela degli obiettivi delle reti di scuole e dei PTOF, a cui ci si deve attenere.

E poiché, come dice il piano del governo, “le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola”, intervengono le risorse private che “possono contribuire a trasformare la scuola in un vero investimento collettivo” (pag. 8). Vale la pena seguire l’intera argomentazione del documento ministeriale (corsivi miei):

Le risorse pubbliche non saranno mai sufficienti a colmare le esigenze di investimenti nella nostra scuola. Stiamo parlando della più grande e preziosa rete pubblica del Paese, ma anche di un cantiere sempre aperto, che richiede costante cura e aggiornamento. La scuola è una frontiera mobile: se pensiamo alle sfide della competizione globale, al dinamismo di una società sempre più multiculturale, alla rapidità del cambiamento tecnologico, capiamo subito le esigenze di una continua sperimentazione educativa. Vale per la scuola quanto è ormai ovvio per moltissimi altri ambiti, a partire dalla ricerca: sommare risorse pubbliche a interventi dei privati è l’unico modo per tornare a competere. Non c’è quindi nulla da temere dall’idea che, a certe condizioni, risorse private possano contribuire a trasformare la scuola in un vero investimento collettivo. A maggior ragione se ne giustifichiamo lo sforzo creando una visione comune in cui credere convintamente tutti, come cittadini. Per funzionare, questo investimento collettivo deve essere apertamente incentivato. Anzitutto per le scuole deve essere facile, facilissimo ricevere risorse. La costituzione in una Fondazione, o in un ente con autonomia patrimoniale, per la gestione di risorse provenienti dall’esterno, deve essere priva di appesantimenti burocratici.

La scuola, in questa prospettiva, deve attrezzarsi alla competizione globale (data come indiscutibile), essere in continua sperimentazione (come se fosse sempre in funzione di esigenze esterne a sé e priva di riferimenti culturali), accogliere senza storie e senza controlli finanziamenti privati (con le relative pressioni esterne), diventare un investimento collettivo (ma i soggetti di questo “noi” non sono precisati e sono facilmente individuabili nei capitali privati) e diventare una Fondazione.

Eccolo lì, il punto-chiave, quello su cui pochissimo si è detto ai cittadini: la scuola-fondazione NON è la scuola pubblica della Costituzione, NON forma uomini e cittadini, ma lavoratori già pronti a entrare velocemente e senza diritti nel mondo del lavoro, NON colma le disuguaglianze sociali, ma le accentua, rendendole territoriali, NON rilascia titoli con valore legale, ma certificazioni di competenze, abbandonando i singoli alla leggi spietate del mercato, NON educa, ma si limita ad istruire secondo la volontà di chi la finanzia. Ritroviamo qui per intero il Verbo neoliberista: deregolamentare, privatizzare e tagliare servizi pubblici con la scusa del debito pubblico e della carenza di fondi, unica realtà immodificabile. L’autonomia scolastica, nata per superare il centralismo burocratico della scuola statale, con una mutazione genetica diventa la solitudine darwiniana della scuola, che deve mantenersi a galla nella lotta per la sopravvivenza escogitando sempre nuovi modi per attrarre finanziamenti, perdendo ogni reale autonomia e diventando privata nella sostanza.

Questo è un tradimento del compito educativo della scuola ed è un violento assalto ai valori sui quali si fonda la scuola della Costituzione. Ma ne riparleremo nel prossimo articolo, cercando di vedere quali azioni concrete si possono mettere in atto per contrastare questa deriva apparentemente inarrestabile.

[continua]